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VERMOUTH. CORREVA L’ANNO 1933 (Vol.2)

Quando Vittorio Emanuele III trovò il tempo di firmare il documento che dettava le regole di produzione

Versamene un altro Sam (ma non la rivista, quella è un’altra cosa). Perché se al piano – e pianista – sostituiamo il bancone di un bar di una torrida Casablanca, non stupirebbe immaginare Ingrid Bergman ordinare l’ennesimo vermouth, per dimenticare l’indimenticabile. E peccato che in quel periodo l’Italia non fosse l’approdo più sicuro per chi, come lei, scappava dai rastrellamenti nazisti, altrimenti la bella Ingrid avrebbe goduto di una sua rilettura ancor più efficace nel lenire le pene d’amore. 

Il merito sarebbe stato di un conte fiorentino, che ordinando un aperitivo al Caffè Casoni di Firenze, chiese al barman di servirgli il ‘suo’ Americano aggiungendovi del gin anziché la consueta soda. E l’esperienza ci ha dimostrato che non c’è miglior tonico per il cuore di un Negroni come si deve.

Fossimo stati dei futuristi lo avremmo per questo potuto chiamare riparacuore, o alla peggio fumosuiricordi. Già, anche gli esponenti di questa vivace corrente culturale di inizio Novecento ebbero da dire la loro sui cocktail, ribattezzati polibibite in onore dello stile autarchico dell’epoca. Le vedevano come creazioni di ingegno, non codificate, che dovevano coinvolgere tutti i sensi – c’era chi usava tavolette tattili durante la degustazione – per un’esperienza totalizzante. E se il miscelato non era buono pazienza, se ne pensava, e beveva, uno diverso. Senza saperlo si stava sdoganando il letale ‘mischione’, che più di una volta abbiamo sentito tirare in ballo per spiegare sonori hangover, perlopiù adolescenziali. 


Scena dal film "Casablanca"
Scena dal film “Casablanca”

Era quella un’epoca nella quale l’umanità cercava insistentemente di allargare i suoi confini, e non c’erano crisi economiche o trincee che frenassero quella voglia di futuro che sorvolò Fiume a fianco del Vate. Erano gli anni del motore a scoppio e delle distanze non così distanti. A beneficiarne (anche) gli scambi mercantili e chi, come Alessandro Martini (scontato incontrare prima o poi questo cognome quando si parla di vermouth), dalla metà dell’Ottocento commerciava vermouth. Lo faceva per conto della ‘Distilleria nazionale da spirito di vino all’uso di Francia’, società che nel 1863 rilevò assieme al contabile Teofilo Sola e al liquorista Luigi Rossi. Il seme per la futura Martini&Rossi era gettato. 

Intanto, all’ombra di voluminose gonnelle che rivelavano dettagli proibiti al ritmo incalzante del can-can, maturava un nuovo genere artistico, quello pubblicitario. I primi quotidiani accoglievano nelle loro pagine vere e proprie opere d’arte, firmate da artisti come Toulouse-Lautrec, pioniere del genere, e De Chirico. Parole d’ordine intarsiate nella leggerezza dello stile Liberty o nell’intensità del futurismo. Réclame che diventano pubblicità, seguendo l’evoluzione di una società dove il vermouth ha sempre trovato un suo spazio. Facile, si potrebbe dire considerando i suoi tanti rivoli sensoriali, ma non scontato, specie considerandone il peso specifico nel mondo della mixology


Il grande libro del Vermouth di Torino
Il grande libro del Vermouth di Torino

Il riconoscimento del vermouth di Torino

Guardando all’aspetto formale della cosa, la prima normazione del vermouth risale a un Regio Decreto del 1933. Sebbene impegnato a trovare il suo posto nell’affollata spiaggia africana, Vittorio Emanuele III trovò il tempo di firmare il documento che ne dettava le regole di produzione, come gradazione minima, tenore zuccherino, percentuale in volume del vino base e delle sostanze aggiunte. Molti anni dopo, 1992, fu la Comunità Europea a stabilire nuove regole, nelle more delle quali si riconosceva l’esistenza di un vermouth di Torino’.



In definitiva il vermouth – o vermut – è un prodotto composto da almeno il 75% di vino, dolcificato e aromatizzato con un infusione alcolica di varie botaniche, prima tra tutte l’artemisia. Si possono utilizzare uve a bacca bianca o rossa, ancorché straniere (e la pratica è in uso). La sua gradazione alcolica minima deve essere 14,5%. Ne esistono diverse tipologie, a seconda del diverso grado zuccherino – e relativo tenore alcolico – o più semplicemente del colore. Sia chiaro, la base produttiva è (quasi) sempre un vino bianco giovane, il più neutro possibile, ma grazie all’aggiunta di caramello naturale possiamo averne anche una versione ‘in rosso’. 

Le botaniche utilizzate nell’infusione? Tante, al punto da rendere impossibile citarle tutte. In una sorta d’appello cameratesco si potrebbe dire assenzio, camedrio, cardo santo, centaurea minore, coca, dittamo, issopo, legno di quassia, macis, maggiorana, melissa, noce moscata, sambuco, vaniglia, zafferano, zenzero.

Non manca poi, e come potrebbe, una versione alla maniera sabauda. Nel 2017 infatti il vermouth di Torino è diventato una Indicazione Geografica Tipica, riconosciuta dalla Comunità Europea. Il relativo disciplinare restringe i contorni produttivi di questa tipologia, imponendo ad esempio l’uso di vino 100% italiano e artemisie esclusivamente piemontesi. Di nuovo un rilancio sul suo prodotto più identitario, che richiama quanto detto da Arnaldo Strucchi, enologo che fu di casa Gancia, che ebbe a dire come “Se a Torino il vermouth non ebbe i suoi natali, qui ebbe il battesimo della rinomanza”. 

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