Campbeltown cover
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L’ETERNO RITORNO DELLO SCOTCH WHISKY DI CAMPBELTOWN 

La più piccola regione produttiva scozzese vive oggi una nuova età dell’oro. L’ultimo capitolo di un’epopea fatta di fiducia, caduta, fantasmi e orgoglio 

Se non fosse piuttosto scurrile utilizzare metafore proctologiche riferite alle divinità degli antichi romani, si potrebbe tranquillamente collocare Campbeltown lì dove tutti gli scozzesi vi diranno che si trova: in culo a Giove. Tecnicamente non è una precisa indicazione geografica, ma realisticamente rende bene l’idea di quanto lontana, scomoda e romanticamente desolata sia la penisola del Kintyre su cui sorge questa cittadina semi-sconosciuta. Che con le sue 4.500 anime e le sue agili tre ore di guida che la separano da Glasgow, dà il nome alla più piccola e dimenticata regione di produzione dello Scotch whisky

Già, perché se l’isola di Islay ha guadagnato l’immortalità grazie al successo dei single malt torbati, se lo Speyside è diventato il regno dei distillati morbidi, le Highlands sono icona della scozzesità e le Lowlands sono facilmente raggiungibili dai turisti che bazzicano Edimburgo, Campbeltown si è lentamente eclissata per un secolo. Arrivando persino a rischiare di essere cancellata dall’atlante della Scotch Whisky Association. Salvo poi, come in tutti i romanzi di avventura, invertire la rotta del destino e andare incontro a nuova fortuna. 

Ma andiamo con calma, che quando si parla di whisky occorre saper aspettare… 


Il centro di Campbeltown

CAMPBELTOWN, LA “WHISKY CITY” SCOZZESE

Campbeltown è uno di quei posti che perfino Dio ogni tanto si dimentica di aver creato. Se ne sta sul mare, al termine della Scozia occidentale e della A83 che parte da Tarbert e costeggia il fiordo del Loch Fyne attraverso paesaggi tanto solitari quanto fatati. Se si eccettua la vista sublime e l’Ardsheil Hotel Whisky bar, vista oggi la città, con quell’inconfondibile patina di disagio e malinconia che si posa su certi relitti di antichi splendori industriali, è vagamente deprimente. Eppure, se ci si guarda bene intorno, qualche antica residenza vittoriana elegante e qualche chiesa sussurrano che un tempo non era così. Anzi, un tempo questa era – per citare Alfred Barnard, autore del mitico reportage-censimento di fine Ottocento «The whisky distilleries of the United Kingdom» – la “Whisky city”, la “Whisky land” e la “Spiritual town”. Il corrispettivo – decisamente meno posh – di Epernay per lo Champagne. 

Se l’alchemica arte della distillazione era giunta sulle coste del regno degli Scoti già nell’Alto Medioevo, pare grazie ai monaci irlandesi arrivati dalla contea di Antrim, distante solo poche miglia di mare, fino all’inizio del XIX secolo Campbeltown era rimasta solo uno dei tanti angoli remoti in cui i contrabbandieri avevano nascosto i loro alambicchi clandestini per evitare di pagare le accise (292 quelli confiscati). 


Una vecchia immagine di Campbeltown

GLI ANNI VENTI E LA PROLIFERAZIONE DELLE DISTILLERIE

Il grande salto avviene intorno agli anni Venti dell’Ottocento, quando le distillerie cominciano a fiorire come erica nelle brughiere. In un secolo, ne sorgeranno con alterne fortune una quarantina e l’elenco in rigoroso ordine alfabetico sembra un viaggio nel tempo: Albyn, Ardlussa, Argyll (diventata un garage), Benmore, Broombree, Burnside (diventata uno stabilimento caseario), Caledonian, Campbeltown, Dalaruan, Dalintober, Drumore, Glenramskill, Glen Nevis, Glen Scotia, Glengyle, Glenside, Hazelburn (dove lavorò il padre del whisky giapponese Masataka Taketsuru), Highland, Kinloch, Kintyre (dove nel 1876 un esattore delle tasse cadde in un pentolone di acqua bollente e morì), Lochhead, Lochside, Lochruan, Longrow, MacKinnan’s Argyll, Meadowbank, Meadowburn, Mossfield, Mountain Dew, Rieclachan, Springbank, Springside, Toberanrigh, Union e West Highland.  

Di tutte queste, oggi ne sopravvivono solo tre

Ma non è ancora tempo di tornare al presente. Rimaniamo all’Ottocento, all’età dell’oro, per provare a capire perché Campbeltown era diventata l’ombelico del whisky e (dati del 1890), la città con il più alto reddito pro-capite del Regno, con l’equivalente di 30mila sterline di accise versate per ciascun abitante. 


Vista su Campbeltown

I motivi sono tanti, così come altrettanti sono quelli che ne hanno decretato il tramonto. Innanzitutto, la zona Occidentale della Scozia è eccezionalmente fertile, un territorio vocato sia alla coltivazione dell’orzo, sia allo sviluppo della torba. A questo, si sommavano altre due “benedizioni”: l’acqua ottima del Crosshill Loch e il carbone della miniera di Drumlemble. E la vicinanza con gli esperti distillatori irlandesi. Questo per quanto riguarda la produzione del whisky. Ma la differenza, a cavallo fra le due rivoluzioni industriali, la facevano i commerci. E nella fattispecie il porto naturalmente profondo, che consentiva alle navi a vapore dei mercanti di Glasgow – allora definita “la seconda città del Regno” dopo Londra  – di appoggiarsi a Campbeltown per fare incetta dei due tesori locali: le aringhe che brillavano al sole come argento e il whisky che qui impregnava dei suoi profumi fumosi ogni singola casa. 


Alcune pescivendole di Campbeltown

Per tutto l’Ottocento le “magnifiche sorti e progressive” sembravano inconfutabili. Il trinomio whisky-ricchezza-Campbeltown era un assioma certo. La fillossera che aveva annientato il cognac e dato nuovo slancio all’export, sembrava un segno divino. Per ogni distilleria si ergeva anche una chiesa, come a “esorcizzare” l’effetto di quello che era sempre e comunque “una bevanda del demonio”, e lo “skyline” del villaggio vedeva torreggiare campanili e ciminiere. Un inno alla modernità. Invece, nell’ottimismo stolido e cieco nel progresso si nascondeva il germe del disastro.

GLI ANNI BUI DELLA QUANTITA’ A SFAVORE DELLA QUALITA’

Spinti dalla febbre di guadagno, molti distillatori iniziarono a puntare solo sulla quantità a scapito della qualità. Il risultato fu un’ abnorme crescita di impianti, una totale mancanza di investimenti in tecnologia e manutenzione e una produzione smodata, con la creazione di stock infiniti di un whisky unanimemente considerato piuttosto infame, specie se paragonato con quello spirito possente, torbato e marittimo che aveva creato il mito di Campbeltown. La prima bancarotta di Pattison trascinò a fondo altri dieci colleghi e l’approccio al whisky come business cambiò. La Guerra Mondiale, il Temperance Movement che metteva nel mirino gli alcolici tanto da far dire al premier David Lloyd George che l’alcol era “più pericoloso di tutti i sottomarini tedeschi” e infine il Proibizionismo e la Grande depressione colpirono pesantemente. Il resto lo fece la concorrenza dello Speyside, che grazie alla ferrovia Strathspey era molto meglio collegato alle grandi città rispetto al Kintyre e che produceva uno stile di whisky più morbido e suadente, decisamente più rispondente ai gusti fini della upper class britannica.  


L’ingresso della distilleria Springbank

Nel 1934 erano rimaste aperte soltanto Springbank e Glen Scotia, il cui proprietario Duncan MacCallum si era suicidato annegandosi, con relativo fantasma ad infestare per sempre la distilleria. La popolazione orfana del perno dell’economia locale iniziava a lasciare la città. E il whisky di Campbeltown era ormai definito “stinking fish malt”, perché gli altri produttori mettevano in giro malelingue sul fatto che venisse invecchiato in barili che avevano contenuto pesce sotto sale. 

Sembrerebbe la triste fine di una favola a scopo educativo, una di quelle in cui l’ingordigia umana viene punita da qualche diavolo indispettito dall’eccessiva tracotanza e dalla hybris di chi ha venduto la sua anima per una buona stella negli affari. Invece mai sottovalutare la capacità di rialzarsi di uno scozzese, figuriamoci di un manipolo di highlander che vivono in culo a Giove. 


L’interno della Springbank Distillery

Dal dopoguerra in poi, Campbeltown si barcamena a fatica, sempre con sullo sfondo la prospettiva di uno spopolamento totale. In questi decenni, resi ancor più aspri dalla crisi petrolifera degli anni ’70, l’unica “industria” rimasta in città è Springbank, che lotta con le unghie e con i denti per legare il suo futuro a quello della comunità. Controcorrente rispetto alle scelte delle altre distillerie di Scozia, che nel frattempo muovono verso l’automazione e la riduzione del personale, Springbank sceglie di tornare alla pura artigianalità, alla manualità e all’autenticità, assumendo solo manodopera locale.  Dopo essere sopravvissuta al thatcherismo e all’edonismo degli anni ’80 e al grunge degli anni ’90, Campbeltown è pronta per accogliere finalmente il vento in poppa che manca da troppo tempo.  


Le botti della distilleria Springbank

IL RINASCIMENTO DI CAMPBELTOWN

Il cosiddetto “Campbeltown Renaissance” può essere fatto risalire a un pericolo scampato. Ovvero a quando, alla fine del secolo scorso, la Scotch Whisky Association, ha ventilato l’ipotesi di togliere a Campbeltown lo status di regione produttrice. Insostenibile mantenerla con sole due distillerie attive, le già citate Springbank e Glen Scotia. D’accordo il nobile passato, ma ormai la città era ridotta all’ombra di se stessa. Sarebbe passata sotto la denominazione Highlands. 

L’ipotesi di un colpo di spugna sul pedigree della regione, in qualche modo ha urtato l’orgoglio di Hedley Wright, che con il gruppo J&A Mitchell possedeva Springbank. Tanto da spingerlo a rilevare gli edifici abbandonati della Glengyle distillery, in cui dal 2004 ha iniziato a produrre single malt con il marchio Kilkerran. Con tre impianti attivi, tanti quanti nelle Lowlands, la denominazione di Campbeltown era salva.  

Come spesso accade quando si scampa un pericolo, per qualche scherzo del karma o forse perché Dio si ricorda improvvisamente del lavoro lasciato in sospeso, le cose iniziano a girare meglio. E da lì in poi Campbeltown torna ad attirare l’attenzione degli appassionati soprattutto grazie a Springbank, la distilleria aperta nel 1828 che fin dagli anni Sessanta – con la parentesi della chiusura dal ’79 all’89 – era diventata un vero feticcio per connoisseurs e collezionisti. Non solo per l’indubbia qualità degli imbottigliamenti, ma anche per ragioni filosofiche. 


L’ingresso della Glengyle Distillery

Springbank infatti, come ha raccontato recentemente l’ambassador Melanie Stanger a una serata di degustazione organizzata a Milano dal Milano Whisky Festival e dall’importatore italiano Beija Flor, è ormai l’ultimo mohicano dello Scotch. Nel senso che è rimasta una delle poche distillerie fieramente tradizionali a maltare in casa l’orzo e l’unica a utilizzare solo orzo maltato in casa. Un lavoro pesante – il maltaggio dura 8/10 giorni e i chicchi vanno girati ogni 4 ore – e anti economico, ma che consente una maggiore autenticità. Inoltre,  Springbank non utilizza filtrazione a freddo né aggiunta di coloranti, limita la produzione a 250mila litri l’anno e sfoggia ancora un alambicco a fuoco diretto. È talmente old style che pochi anni fa, gli invitati al matrimonio di un dipendente chiesero dove si producesse il whisky, dato che l’impianto – senza neanche un computer e il taglio delle code e delle teste assolutamente manuale – somigliava più che altro a un museo. 

Oltre alla sua anima vintage, Springbank negli anni è riuscita a differenziare con intelligenza la sua offerta, con tre diversi single malt. Si parte con Hazelburn, per cui viene usato orzo non torbato che viene distillato tre volte come nell’Irish whiskey, al fine di ottenere uno spirito delicato ed elegante. Unica controindicazione: «Mi è capitato che una turista americana mi dicesse che non poteva berlo, perché allergica alle nocciole«. Che in inglese si dice hazelnut.


Il forno che alimenta l’alambicco di Springbank

C’è poi Springbank, che non ha mai cambiato il peculiare metodo a “due distillazioni e mezza” e che risulta lievemente torbato, tra i 12 e i 20 ppm (le parti per milione di fenoli con cui si misura la torbatura; i torbati più famosi come Laphroaig, Lagavulin e Laphroaig sono tra i 40 e i 55 ppm). Un whisky di carattere, con note di salamoia che si stagliano in un palato in cui il malto costiero la fa da padrone. 

Infine c’è Longrow, che come Hazelburn è l’antico nome di una distilleria. Nato negli anni ’70 come risposta al single malt torbato di Islay, inizialmente era prodotto in maniera assassina mettendo perfino pezzi di torba nell’alambicco. Il progetto sperimentale era stato abbandonato fino al 1990, quando la filosofia produttiva è cambiata: asciugatura del cereale per 48 ore con solo fumo di torba e distillato finale a 40 ppm, per un whisky grasso e fumoso, molto riconoscibile. 


Il magazzino di Cadenhead’s

Il gruppo J&A Mitchell, che possiede anche la storica etichetta di imbottigliatori indipendenti Cadenhead’s (a proposito, il visitor centre a Campbeltown è il paese dei balocchi…), come abbiamo accennato è proprietario anche della distilleria Glengyle. Che, curiosamente, nel 1872 venne fondata dal fratello dell’allora proprietario di Springbank, andatosene dalla distilleria avita dopo una furiosa lite per questione di una pecora. A Glengyle, poiché il nome era stato nel frattempo acquistato dalla Loch Lomond, dal 2004 si produce Kilkerran, il whisky spiccatamente costiero che va a chiudere il portafoglio di single malt del gruppo. Gruppo che ad agosto ha pianto la scomparsa di Wright, proprietario dagli anni ’60. Come sua ultima volontà, Wright ha creato un trust con tre fondi incaricato di mantenere la produzione il più possibile tradizionale, di evitare cessioni a multinazionali e di salvaguardare la comunità locale, sia con il mantenimento dei cento posti di lavoro, sia con investimenti nel sociale. 

All’affresco manca solo un colore, la terza distilleria ancora attiva, ovvero la Glen Scotia “infestata” dal fantasma del suo proprietario suicida. Oggi il marchio e l’impianto, in cui lavorano solo otto dipendenti, sono di proprietà del gruppo Loch Lomond. Gli edifici, in particolare le warehouses, sono quelli originali degli anni ’30 dell’Ottocento. La gamma è molto varia, con un profilo che sa essere divisivo, di cui il Victoriana è forse l’imbottigliamento più rappresentativo. 


La distilleria Glen Scotia

LE NUOVE APERTURE

Tutto finito? Quasi. Se non fosse che in pieno slancio rinascimentale Campbeltown aspetta di brindare all’inaugurazione di tre nuove distillerie. Machrihanish, la prima ad aprire in 180 anni, è di proprietà del gruppo R&B distillers, che possiedono anche la Isle of Raasay distillery. Sarà una perfetta esemplare della filosofia “from grain to glass”, in cui viene distillato l’orzo coltivato in loco, nella fattispecie nella Dhurrie Farm. L’altra realtà ormai prossima a vedere la luce sarà Dàl Riata, dal nome del regno Dalriada degli Scoti razziatori. Sorgerà sulle rive del Campbeltown Loch, con il beneplacito dell’ente di tutela ambientale, e produrrà 850mila litri di alcol l’anno. Infine, nell’estate del 2023, la Brave New Spirits, di Glasgow ha ottenuto i permessi per realizzare una distilleria 100% ecosostenibile in grado di produrre 2 milioni di litri l’anno. Sorgerà sull’area dell’ex base militare della RAF (la Royal Air Forse britannica) e si chiamerà Witchburn.

Abbastanza per brindare a un nuovo inizio. Sperando che fantasmi, ingordigia e sfortuna smettano di accanirsi su questo piccolo paradiso dimesso della bevanda spiritosa più buona al mondo. 

Classe 1982, è cresciuto a Cremona ma a Milano è nato, si è laureato, vive e lavora come giornalista: in sostanza, è fieramente milanese fin nel midollo. Proprio come il risotto. Quando non si occupa di cose più serie ma più noiose, scrive di distillati: ha collaborato con scotchwhisky.com, fa parte della squadra di whiskyfacile.com e tiene la rubrica settimanale “Gente di Spirito” sul Giornale, di cui è vicedirettore dal 2017. Forse in gioventù ha letto troppo, e così si è convinto che solo gli alambicchi non mentano mai e che da lì esca la vera anima degli esseri umani.

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