Whisky italiano Alberto Milan cover
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QUELLI CHE “IL WHISKY LASCIATELO FARE AGLI SCOZZESI”

Più cresce la produzione italiana, più insistenti si fanno le voci degli ottusi che guardano al distillato di malto autoctono storcendo il naso

Più si moltiplicano le etichette di whisky italiani, più si fa tonante quel mormorio che si leva dal pubblico di appassionati e di consumatori, che – restii ai cambiamenti più di alcuni esponenti dell’aristocrazia prussiana dell’Ottocento – guardano al fenomeno del malto autoctono con un misto di orrore e sacrilegio. “Il whisky lasciatelo fare agli scozzesi – dicono e scrivono -. Noi abbiamo una gloriosa tradizione di distillazione di grappa e brandy, di liquoristica: fate quelli, lasciate perdere gli spiriti forestieri”. 

Ora, nemmeno in certe sparate degli attuali ministri si sente un tale concentrato di ottusità e sciocchezze. E vale la pena puntualizzare un po’. 

Il whisky è un distillato d’orzo. L’orzo è un cereale. I cereali sono diffusi in tutto il mondo con l’eccezione delle zone più climaticamente inospitali. I cereali si distillano da quando l’uomo ha inventato l’alambicco. Distillare cereali fa parte della storia enogastronomica di ogni popolazione incline a trasformare le materie in alcolici. 

In Scozia si è sviluppata una delle versioni migliori di questo genere di distillati. Merito del clima, ma non solo. Colpa anche degli irlandesi che si sono suicidati commercialmente rifiutando il progresso degli alambicchi a colonna inventati durante la rivoluzione industriale, ma questo è un’altra storia. Diciamo che lo Scotch è considerato il vertice della qualità del distillato di cereali. È l’unico esempio? Neanche per sogno.  


Whisky Alberto Milan interna

Il whisky (o whiskey) si produce in tutti i continenti, Antartide esclusa. Quello americano si fa dai tempi della prima colonizzazione, ma sono stati emigranti britannici a portarlo, utilizzando segale e mais invece dell’orzo europeo. Ma gli altri? Che dire dei whisky indiani e taiwanesi che vincono premi, che dire delle numerosissime distillerie francesi sorte nell’ultimo decennio? Che dire del whisky giapponese, poi, unanimemente considerato eccellente (a dispetto di prodotti che, come capita ovunque, in realtà sono tutt’altro che splendidi) ma prodotto nel Sol Levante soltanto dal 1923? 

La realtà è che l’obiezione “fate quello che avete sempre fatto”, più che richiamare la saggezza del detto lombardo “ofelè fa el to mestè” che invita ciascuno a rimanere nella comfort zone della sua specializzazione e della sua professione, è una sciocchezza. Altrimenti saremmo ancora qui a bere il vino con dentro le erbe e il miele che tanto piaceva ai latini.


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Il progresso – anche nel gusto – passa attraverso il sincretismo, l’appropriazione culturale. Suggestioni alloctone vengono adattate, si trova una via autoctona a qualsiasi input esterno. Di sicuro qualche puntuto giapponese degli anni Venti avrà scosso la testa davanti all’inaugurazione della distilleria Yamazaki: “Mmm, ma fate sake e shochu, su. Lasciate fare il whisky agli scozzesi”. Non avremmo i gioielli liquidi di oggi. 

Questo significa che il whisky italiano diventerà come quello giapponese? Assolutamente no. Ma la critica ai whisky di casa nostra, da Puni a Psenner, dal whisky di Bordiga a quello di Nannoni, fino a Strada Ferrata, Poli e Villa de Varda, deve essere empirica, non idealistica. Certi whisky che stanno uscendo ora sul mercato non sono da condannare perché blasfemi e filologicamente incoerenti con la tradizione distillatoria italiana. Caso mai sono da stroncare se troppo giovani o tecnicamente sbagliati, se sgraziati o cattivi. Giudichiamo col palato e il naso, non con la testa blindata da una visione del mondo fatta di orticelli chiusi e non comunicanti. 

Formazione scientifica, professione artistica, passione alcolica. Il cognome tradisce le radici lombardo-venete che, se scrivi di spiriti, sono un plus. Collabora con diverse testate e qualche testata la rifila pure, ma rigorosamente solo al pallone.

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