Fabio Molinaro Robilant
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Campari, cambia veste. I dettagli che fanno la differenza

La prima cosa che colpisce un “quasi boomers”, osservando la nuova bottiglia di Campari con la testa ancora legata alla vecchia, è il corpo di vetro, con la sua lavorazione definita canneté – un termine preso in prestito dal mondo dei tessuti, dove indica le coste sottili in rilievo – che richiama alla mente l’immagine stilizzata del Duomo di Milano. È certamente un elemento di distacco dal vecchio packaging, ma al tempo stesso c’è una forte continuità con i temi della città dove nacque, grazie a Davide Campari, il bitter più famoso del mondo, oggi diventato un prodotto di consumo planetario.

Il rebranding di Campari

I temi sono quelli dell’architettura milanese. Proprio il legame stretto tra il prodotto e la sua città, un prodotto nato in Galleria e cresciuto fino a diventare parte integrante della cultura italiana del Novecento, è il punto focale di questo rebranding che, essendo applicato a un’icona assoluta come la bottiglia del Bitter datato 1860, presentava enormi insidie per chi se ne è fatto carico. E forse anche per questo, in Campari, hanno deciso di andare sul sicuro, affidandosi al leader indiscusso nel campo del branding ovvero Robilant, con il quale il rapporto è assolutamente consolidato.

Campari, i dettagli che fanno la differenza

Oltre al corpo di vetro, gli altri cambiamenti più significativi sono: le dimensioni ridotte dell’etichetta, la firma del fondatore, l’inserimento dell’anno di nascita, il logo stilizzato monocolore. Piccoli dettagli, o forse non così piccoli, ma in ogni caso il rebranding è avvenuto secondo il principio dell’eleganza, la stessa che regna a Milano: una città di stile e sobrietà, di bellezza talvolta nascosta ma vera, sofisticata e discreta, dinamica e con lo sguardo rivolto al futuro. «Ogni tratto esprime quel dinamismo e quello slancio verso una dimensione internazionale che accomuna il brand e la città e che, nel guardare avanti, mai tradiscono il loro storico sodalizio: Campari, Milano», afferma Fabio Molinaro, direttore creativo di Robilant, raccontando a Spirito Autoctono la genesi e il senso di questa piccola rivoluzione che lascia il segno perché, se cambia un prodotto come Campari, forse significa che per tanti altri liquori e distillati italiani è giunto il tempo di voltare pagina. Cercando di capire, innanzitutto, come gestire questa svolta, affinché non diventi un autogol e possa portare dei benefici in termini di immagine e, naturalmente, anche in termini commerciali.


La nuova bottiglia di Campari
La nuova bottiglia di Campari

Innanzitutto: come siamo arrivati a questo passaggio?

«Lavoriamo da tempo con il Gruppo Campari e lo facciamo su diversi progetti. Da parte loro era emersa la necessità di rivedere il prodotto-icona perché l’identità del brand era la stessa da tempo immemore, e si era arrivati a una reale staticità. Tutto è iniziato da due visite molto approfondite, la prima in Galleria Campari a Sesto San Giovanni e la seconda al Camparino in Galleria, fondamentali per partire da solide basi. In meno di sei mesi, la nuova veste era stata realizzata e approvata, ma poi per arrivare alla realizzazione della bottiglia è servito molto più tempo, tra adattamenti e sostituzioni di macchinari per la produzione in serie. Si tratta infatti di un processo di industrializzazione tutt’altro che banale, perché i quantitativi sono ingenti e la produzione annuale di Campari cresce a doppia cifra…»

Che cosa significa per uno studio di branding dover rimettere mano a un’icona come la bottiglia di Campari? Con quali modalità avete affrontato la sfida?

«Con la consapevolezza che si trattasse di un grande onore e con tanto, tantissimo rispetto. La chiave, nell’affrontare progetti di questa portata, è l’equilibrio tra la necessità di conservare l’identità del prodotto, che ci viene consegnata dalla sua storia, e la volontà di progredire. Perché la marca ha sempre la necessità di essere reinterpretata e ancor più oggi che Campari non è più un prodotto di consumo nazionale ed europeo, ma globale. Una direzione, peraltro, che appartiene al dna stesso di Campari e di Milano, accomunate nella loro dimensione internazionale e nel guardare avanti. Il risultato finale è un heritage aggiornato, un’evoluzione realizzata attingendo da un bacino storico immenso».

Questa necessità di guardare avanti riguarda solo Campari o deve essere presa in considerazione da altri storici distillati italiani?

«Tutti gli spirits italiani stanno vivendo la sfida del cambiamento, in questo preciso momento storico. A loro favore gioca il fatto di avere un’identità che è frutto della loro storicità, delle ricette segrete che stanno alla base del prodotto stesso. Si tratta di una grande opportunità, che però non deve trasformarsi in una difesa a oltranza della veste del passato e di determinati aspetti che possono apparire perfino folk. Partendo da un vissuto culturale profondo, è necessario procedere con un aggiornamento dell’immagine per essere credibili e comprensibili a livello internazionale. Serve un adattamento di quei codici in chiave contemporanea».

Nel caso di Campari, qual è stato l’adattamento?

«Il driver di Campari è l’eleganza, che da sempre ha caratterizzato la marca e il prodotto. E l’eleganza di Campari è l’eleganza un po’ nascosta di Milano, dei suoi cortili, l’eleganza che oggi si ritrova sulla lavorazione del vetro, emblema di raffinatezza della bottiglia».

Campari uguale Milano, ma in questo caso il gioco è abbastanza facile perché il mondo conosce entrambi. Per gli spiriti che appartengono ad altri territori, la connotazione territoriale è fondamentale in chiave di rebranding?

«Non vale necessariamente per tutti. È importante, certo, perché un distillato è espressione di un territorio e perché, se c’è una storia, sarà certamente radicata a quel territorio, ma il driver di comunicazione può anche consistere in altri valori del prodotto. In ogni caso, la dimensione geografica ha un ruolo nello storytelling del prodotto».

Prima di Campari, cosa avete fatto nell’ambito degli spirits?

«L’elenco è lungo, dal restyling di Braulio a quello di Amaro Montenegro, per non parlare degli aperitivi alcolici e analcolici, come Campari Soda e Crodino…»

E dopo Campari, a quale altro spirito autoctono vorreste dedicarvi?

«Personalmente non vorrei saltarne nemmeno uno, ma esistono sicuramente delle categorie di prodotto che contribuiscono a diffondere il modo di bere italiano nel mondo, come gli amari e gli aperitivi. Sono una bella rappresentazione del nostro vivere e anche per questo stanno crescendo e sono imitati all’estero da tantissimi new comers. E sono due parti del portfolio spirits dove mi piace lavorare, perché autenticamente italiane e perché i veri leader di categoria devono ribadire, in questi due ambiti, la leadership qualitativa e la loro origine italiana».

Qual è in generale l’immagine degli spirits italiani? La considerate contemporanea o da rivedere?

«Dipende dai singoli casi: alcune immagini sono bellissime e devono essere soltanto conservate, altre avrebbero bisogno di un aggiornamento perché corrono il rischio, soprattutto all’estero, di essere considerate un po’ datate. Basta poco per dare una nuova vita a un’immagine di prodotto, mantenendone la credibilità e preparandolo per affrontare il futuro».

Giornalista specializzato in economia della moda, del design e del food&beverage. Attualmente scrivo per Milano Finanza, Vogue Italia, Gambero Rosso, Gruppo Food, Corriere Vinicolo e altre testate italiane ed estere.

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