Poli Vaca Mora 125 anni cover
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POLI DISTILLERIE, 125 ANNI DI FAMIGLIA E INNOVAZIONE

Quattro chiacchiere con Jacopo Poli in occasione dell’anniversario – che l’azienda veneta celebra con un amaro in edizione limitata – tra ricerca, mercati, strategie e tempra familiare

Doppio anniversario in casa Poli. Nel 2023 le storiche Distillerie di Schiavon hanno compiuto 125 anni e da trent’anni il Poli Museo della Grappa è un punto di attrazione per lo spiriturismo in Veneto. 

È un doppio anniversario significativo, perché racconta i valori che guidano l’impresa veneta: famiglia, artigianalità e cultura. E per celebrare i 125 anni tra gli alambicchi, la quarta generazione in Poli ha presentato un’edizione limitata di 4.125 bottiglie numerate di Vaca Mora Riserva. Una versione elevata un anno in barrique dello storico amaro che si produce da sempre, da quando la distilleria era ancora l’osteria del fondatore Gio Batta Poli.


La famiglia Poli nel 1900

Che si fa dunque quando si raggiunge un traguardo così importante? Si volge lo sguardo indietro, riflettendo sull’importanza di alcune tappe che hanno segnato la storia, ma soprattutto si cogli l’occasione per guardare avanti. L’abbiamo fatto con Jacopo Poli, esponente della quarta generazione alla guida dell’azienda, che anticipa a Spirito Autoctono l’evoluzione della produzione in chiave tecnologica, ma anche la possibilità di dedicare uno spin-off al whisky che tante soddisfazioni sta regalando a Schiavon.

Jacopo Poli, quest’anno festeggiate un anniversario importante. Cosa non è mai cambiato nella vostra anima, ma è rimasto dall’inizio?

«Tutto è iniziato da un’idea che era frutto di un ecosistema di fine Ottocento in cui la distillazione degli alcolici iniziava a prendere piede e mio nonno si inserì nel flusso. Poi molte aziende hanno chiuso, per difficoltà nel cambio generazionale o per la crisi della grappa che fece scomparire molte produzioni tradizionali, mentre mio nonno introdusse spirito di innovazione e un approccio imprenditoriale. In seguito non son mancate le difficoltà, dall’incendio devastante nel 1970 alla nevicata che nel 1985 fece crollare i tetti. Allora se mi chiedi cosa non è mai venuto meno posso dire la tempra e la famiglia. Ecco, la famiglia è il terreno su cui germina il seme dell’impresa – questo ci accomuna a molte storie del nostro territorio – e in quel sistema complesso di relazioni tra persone e tra generazioni vive il valore della continuità e della resistenza. Questo ancora oggi ci aiuta quotidianamente a lavorare con amore».

Si può dire che anche l’innovazione sia una cifra rilevante?

«Sicuramente sì, in rapporto ai tempi. Quando, nel 1948, il mio bisnonno comprò il primo camion del paese fu una grande innovazione, così come quando mio nonno si dotò del primo numero telefonico del paese. L’innovazione è sicuramente un tema trasversale, fino ad oggi. Con la produzione di whisky abbiamo introdotto dei sensori negli alambicchi a bagnomaria e sotto vuoto per tracciare alcuni dati – pressione, temperatura, grado alcolico – che sono poi stati convogliati in un database per essere analizzati. Abbiamo cercato di mettere in relazione il flusso in uscita con certa gradazione alla pressione e ad altri fattori. Così abbiamo iniziato a fare prove su prove, variando un solo parametro alla volta. E dalle analisi dovremmo riuscire a rendere sistematico il rapporto tra i dati, consentendoci di avere una precisone netta nella produzione basandoci proprio su quei parametri, mentre fino ad ora non c’era un processo scientificamente definito».

È davvero un passo così innovativo?

«Son quarant’anni che faccio questo lavoro e mi ero illuso di aver capito qualcosa, ma questa ricerca mi ha riportato sui banchi di scuola della prima elementare. È come se avessimo scalato il Monte Grappa che ci guarda tutte le mattine puntando alla vetta, ma una volta arrivati al punto che con presunzione consideravamo la cima ci rendessimo conto che si apre panorama di strade verso l’alto e di nuova ipotesi che non immaginavamo esistessero guardando la montagna da sotto. Si stanno prospettando ipotesi di lavoro nuove e ne avremo per cinquant’anni. Con la tecnologia si possono tagliare meglio teste e code, si può distillare scegliendo una pressione a 0,4 o 0,6, ma anche arrivando a 75 o 82 gradi. Le combinazioni sono tantissime e stiamo ancora studiando… La tecnologia ci permette di indagare ogni singolo parametro, mantenendolo costante come io non potrei fare nonostante tutta l’esperienza produttiva alle spalle. Ecco, si potrebbe arrivare a una ricetta della formula più corretta, in funzione del gusto e della sensibilità, che rimane poi costante».

Si va verso un mastro distillatore dotato di intelligenza artificiale?

«Non ancora, questo no. Perché la macchina non sa davvero cosa deve fare. Non escludo però che un domani possa essere utilizzata. Oggi l’utilizzo della AI in un’azienda la vedrei bene nel gestire i flussi mettendo in relazione gli acquisti di materie prime e semilavorati, la gestione lotti di produzione e il magazzino, insomma razionalizzando la logistica e i programmi di stoccaggio».


La famiglia Poli nel 2023

Se l’innovazione è una cifra, esistono invece etichette che in Poli vengono prodotte dall’anno zero?

«C’è una grappa che vendiamo solo in provincia di Vicenza, quella da cui tutto è partito. È una grappa che noi chiamiamo di pura vinaccia Etichetta Nera, la facciamo ancora oggi. È diventata la cenerentola delle nostre grappa e viene fatta in ossequio a canoni un po’ desueti, per cui riceviamo vinacce miste senza paternità, quelle che ci porta il contadino senza un’idea di vitigno. L’abbiamo sempre fatta e la vendiamo solo qui perché ne facciamo poca, dato che son spariti i conferitori di quella materia prima così disomogenea e bizzarra (i contadini di una volta oggi conferiscono alla cantina sociale). È una grappa che ha un bel carattere, figlia del territorio.

Poi c’è la prugna, un prodotto straordinario che facciamo da sempre con una infusione di prugne intere, con il nocciolo che dà una nota ammandorlata. È uno dei nostri best seller.

Infine c’è l’Amaro Vaca Mora, che prende il nome del trenino che passava di fronte alla distilleria quando ancora era un’osteria. Si fa ancora con la stessa cura erboristica come ai tempi del mio bisnonno, con 16 botaniche in infusione che si rifanno a 5 pilastri aromatici – il mentolato costituito da menta, issopo e melissa, quello agrumato con arancia amara e dolce, il balsamico con macis, cardamomo e coriandolo, il dolce con achillea e liquirizia, poi l’amaro vero con angelica, assenzio, luppolo, china, genziana e rabarbaro. Non filtrato e con una minima aggiunta di zucchero, ha proprietà straordinarie. È un amaro a cui vogliamo bene – infatti abbiamo scelto di farne una Riserva speciale per celebrare l’anniversario – perché è prodotto come facevano gli erboristi veneziani con la Teriaca, tanto che l’erborista con cui lavoriamo dice che dovremmo farlo approvare dal Ministero come supporto farmaceutico, ma comporterebbe complicazioni che non ci interessa affrontare».

Possiamo identificare un prodotto del passato e uno che racconti il presente di Poli?

«Tutti i nostri prodotti sono una stratificazione di memoria. È vero che abbiamo appena smesso di produrre l’Elisir di China, etichetta superstorica che esisteva da sempre frutto dell’infusione naturale di corteccia di China Calissaya. L’abbiamo abbandonato proprio quest’anno, perché ahimè cambiano le mode e i gusti. Quello che invece oggi rappresenta Poli è la Sarpa: è la grappa simbolo, un ponte che unisce il passato e il futuro, racchiude una storia stratificata nel tempo e una propensione al contemporaneo. Per me è il benchmark di una buona grappa autentica, schietta, virile senza aggressività, robusta ma armonica».


L’amaro Vaca Mora Riserva

E invece il prodotto del futuro?

«Restando nell’ambito grappa direi la Due Barili, uscendone mi verrebbe da dire il gin perché noi siamo stati tra i primi ad uscire con un distilled gin in Italia nel 2014, ma adesso in questo mercato c’è una gran confusione. Allora dico che il prodotto del futuro è il whisky. È un progetto partito da poco, rispetto al quale ancora oggi non abbiamo completa consapevolezza, ma è ambizioso. Tanto che meriterebbe una distilleria a sé, facendo una sorta di spin-off che consenta di giocare sulle mille variazioni che il whisky consente tra torbatura, lunghezza, affinamento, gradazioni… È un mondo che vive di microdifferenze, molto lontano dalla grappa a cui il consumatore chiede stabilità e costanza. Gli amanti del whisky invece vogliono esplorare e infatti abbiamo in arrivo un fratellino del Segretario di Stato che uscirà probabilmente nel 2024, magari meno torbato e con grado alcolico più sostenuto, ma un invecchiamento più lungo. Il whisky è sperimentazione e inventiva, per questo credo che la tradizione distillatoria italiana possa dire la sua anche in questo ambito come è avvenuto per il Giappone».

Dopo aver parlato di famiglia, storia e innovazione, se guardiamo al mercato cosa vediamo? Come sta la grappa oggi?

«La grappa sta diventando più internazionale. Per noi non è una sorpresa, perché abbiamo sempre avuto una vocazione all’export, ma ora credo stia avvenendo per tutti. Il mercato italiano è maturo, ma tiene botta. Ci sono invece spazi di crescita altrove e, pur senza fiammate, vedo una buona stabilità che in prospettiva dà segnali di speranza. Si parla molto di grappa in miscelazione, anche se non si usa molto, però questo aiuta la conoscenza del prodotto e per questo noi facciamo molta formazione nell’ambito della mixology, anche se sappiamo che poi i cocktail base grappa saranno uno su mille».


Poli Museo della Grappa (© Gianfranco Mocellin)

Come si cresce sui mercati mondiali?

«Noi lavoriamo con una settantina di mercati e serve un lavoro enorme di formazione e informazione. Quello che limita un poco la diffusione della grappa è il fatto che dobbiamo convivere con una burocrazia che è archeologia fiscale. È come se Sinner dovesse giocare contro Djokovic (ovvero il gin) con una gamba sola e una mano legata dietro la schiena. Noi abbiamo una burocrazia che costringe a distillare in alambicchi sigillati e si invecchia in celle sigillate, così non hai la possibilità di capire cosa sta succedendo. Mentre in Scozia o in Francia possono assaggiare in presa diretta, noi dobbiamo attendere il funzionario che arriva una settimana dopo per assaggiare quello che abbiamo estratto in base alla nostra esperienza. Ha senso considerare ancora oggi i distillatori dei filibustieri in cerca di clandestinità? Ha senso dover pagare (coi soldi dei contribuenti) una sentinella che verifichi un anno di invecchiamento quando altri prodotti alimentari (come l’aceto balsamico o i prosciutti Dop) che hanno un tempo di affinamento necessario lavorano senza un controllore alla porta? Le norme sono obsolete e il caso del gin lo dimostra: senza lacci, il movimento italiano è cresciuto moltissimo e il può competere su scala mondiale.

La grappa invece ha questo grande limite, che rischia di vedere addirittura un irrigidimento adesso che la grappa è una IG, per cui avremo ulteriori analisi e procedure. Cambiando le regole, si potrebbe dare un nuovo slancio, ma serve una visione corale – a partire dai produttori – per immaginare quello che sarà la grappa tra cinquant’anni. Invece si vive ancora di particolarismi e di interessi specifici».

Come vede il progetto Consorzio nazionale della Grappa?

«Non ho ancora una posizione chiara, perché non mi sono ancora chiari gli obiettivi. Temo possa aggravare ulteriormente i controlli a carico di chi già lavora bene, sprecando energie che dovrebbero essere destinate alla promozione. Magari mi sbaglio, ma ho questo timore». 


© Gianfranco Mocellin

E come stanno gli altri spirits? Il gin spingerà ancora?

«La nostra è una distilleria in cui convivono distillato di vinaccia, distillato di vino, di uva e di ginepro, poi abbiamo una gamma di liquori che facciamo da tempo immemore e un amaro. Siamo versatili e per ognuno di questi prodotti abbiamo standard qualitativi molto alti, pur senza pretendere di esser i migliori. Vediamo il mondo dei liquori crescere in maniera molto interessante, a doppia cifra, ma anche gli amari e i vermouth e gli elisir continuano a trovare un grande apprezzamento dal consumatore. Il brandy è stabile, mentre purtroppo vediamo una decrescita per l’acquavite di uva che è buonissima, ma non è stata compresa. Mancano un nome e una identità che la contraddistingua rispetto a grappa o brandy. E infatti la grappa è in crescita, soprattutto quella invecchiata che oggi rappresenta il 90% del mercato.

Il whisky ci sta dando soddisfazioni maggiori di quello che avevamo immaginato, oltre ogni aspettativa. E intanto il gin continua a scoppiettare… Quanto durerà? Non ne ho idea, ma i consumatori si bevono le storie più stravaganti e questo permette un proliferare di etichette e di distillazione in conto terzi. È un mercato strano, ma continua a tirare».

Poli non fa conto terzi, perché?

«Quando è partito il fenomeno delle “grappe di fattoria”, ovvero delle grappe fatte per le cantine con le loro vinacce, moltissimi vignaioli ci hanno chiesto di collaborare, ma per noi significava tenere le vinacce separate e il distillato in serbatoi dedicati, ma regi essere attrezzato e non ci interessava. Lo stesso succede nel gin, dove ogni produttore finisce per distillare per un barman o un’etichetta. Mi viene da chiedermi: cui prodest? Dove è valore aggiunto? E soprattutto questo fa bene alla grappa? Qual è il valore aggiunto per il prodotto e per il consumatore? Alla fine le aziende vitivinicola utilizzano la grappa come omaggio per i clienti o come bonus per i distributori. È marketing, ma non stiamo costruendo nulla per valorizzare il prodotto e si crea solo confusione. Per questo noi facciamo solo due grappe non per, ma in collaborazione con Sassicaia e con Luce di Frescobaldi».

Dopo qualche divagazione tra Nietzsche e Wittgenstein, è tornato a Epicuro. E così scrive di vino, sapori e spirits, di viaggi, di teatro e danza. Veneziano, fa base a Praga. Ama il whisky scozzese e le Dolomiti.

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