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DE VINIS ILLUSTRIBUS, PREGI E (TANTI) DIFETTI DEI FINISH

Dallo splendido risultato alla inenarrabile boiata, il passo è più breve di quanto di possa credere

Tutti noi abbiamo quell’amico che si rifiuta categoricamente di far incontrare le diverse compagnie di persone. Una sera si festeggia con il gruppo del cinema, l’altra volta si fa aperitivo con i vecchi compagni di università, nel weekend gita con quelle coppie con cui abbiamo legato in vacanza. Ma mai e poi mai si mischiano gli ingredienti. Perché? Semplice, per una questione di insiemistica: se noi apparteniamo a diverse compagnie, ci saranno persone che non si conoscono e statisticamente il rischio che si stiano cordialmente sulle scatole esiste. Così come esiste il rischio che questa commistione rovini rapporti ottimi. 

Bella premessa socio-psicologica, ma cosa c’entra con gli spiriti, autoctoni o meno?  Un attimo e ci arriviamo. 

Sempre più spesso i distillati subiscono invecchiamenti complessi. Lungi dal “riposare”, come avremmo detto in passato, vengono spostati da una botte all’altra. Ogni botte apporta il suo contributo di aromi terziari, e il risultato di queste maturazioni variopinte sono spiriti nuovi, che alle note originarie ne aggiungono altre. Per esempio, questa cosa avviene regolarmente nei single malt, che affrontano una maturazione principale in botti ex bourbon americano o ex sherry, per poi essere travasate in barili diversi, eccentrici, che possano dare una “pennellata” sensoriale diversa. Si chiama “finish”, è come l’aerografo che disegna fiamme e stelle sulla carrozzeria e – come spesso succede – è una bellissima invenzione che sta diventando un’ossessione pericolosamente borderline con la boiata. 


Botti di Porto

Il finish nell’industria del whisky, ma sempre più spesso anche del rum, della grappa e perfino del gin (appena uscito Engine in botti di rum Caroni), avviene ormai in qualsiasi contenitore di qualsiasi liquido, in un incrocio caotico infinito. Senza pretesa di completezza, chi scrive ha assaggiato finish in barili che avevano contenuto altri spiriti come rum, Cognac, Armagnac, Calvados, tequila, mezcal, umeshu, sake; finish in botti di birra IPA, lager o Stout; finish in vini fortificati, ossidati o aromatizzati come Porto, Madeira, Malaga, Monbazillac, Sauternes, Moscatel, Passito di Pantelleria, Vin Santo, Marsala, vin brulè (sul serio), vino di betulla (drammaticamente sul serio); e finish in vini tradizionali, dal Trebbiano d’Abruzzo al Pinot Nero, dall’Amarone allo Chardonnay, dall’Orange wine al Tempranillo della Rioja, passando dal Bordeaux al Borgogna, dallo Champagne al Cabernet australiano, neozelandese o californiano. C’è anche un pazzo che il whisky lo ha messo in barili che avevano contenuto aringhe sotto sale, ma qui siamo nel campo delle perversioni. 



Tutto questo è il diavolo? Ovviamente no. Affinamenti relativamente brevi riescono a dare suggestioni particolarissime che a volte donano agli spiriti una nuova vita. Per esempio, i 4 mesi in botti ex Champagne del Glenfiddich Gran Cru regalano un’eleganza splendida, così come spesso lo sherry Oloroso infonde vigore a distillati troppo esili; e l’Amarone nel whisky made in Veneto di Poli assume anche una valenza quasi filosofica. Il problema è l’eccesso. 

Il finish troppo spesso è diventato manierismo, uno stratagemma per dare qualcosa di “diverso” al consumatore, a prescindere dall’effettiva utilità, della piacevolezza del risultato. Posto che un single malt dell’isola di Arran non c’entra ontologicamente nulla col Trebbiano d’Abruzzo, perché farlo se il risultato svilisce sia il whisky, sia il vino? Perché spingere su vini rossi tannici come la morte che poi invadono di astringenza anche il più mite dei distillati?  Sono esercizi di stile, non tutti riusciti, non tutti intellettualmente onesti. 

Per cui, un consiglio non richiesto: prima di sbattere i vostri distillati in botti improbabile con l’obiettivo non troppo nascosto di titillare la curiosità a prescindere, pensateci due volte. Chiedetevi due cose: ha senso? E poi: è buono? Perché prima o poi, a forza di boutade cervellotiche, il consumatore se ne accorge. E i vostri Tavernello finish rimarranno sugli scaffali. 

Formazione scientifica, professione artistica, passione alcolica. Il cognome tradisce le radici lombardo-venete che, se scrivi di spiriti, sono un plus. Collabora con diverse testate e qualche testata la rifila pure, ma rigorosamente solo al pallone.

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