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Pisco, il distillato bandiera del Perù

Con Lucero Villagarcía massima esperta di Pisco, per conoscere una delle bevande più rappresentative del Sud America

Il Perù è conosciuto per la sua enorme ricchezza in termini di varietà di climi, ecosistemi e risorse genetiche che danno origine a una delle culture agricole più ampie del mondo. Questo meraviglioso patrimonio consente la coltivazione di diversi tipi di vite, il cui valore risiede sia nelle differenti uve da pisco, sia nelle caratteristiche che definiscono ciascuna di esse. Nello specifico, il pisco può essere prodotto con otto uve, ognuna portatrice di aromi e sapori diversi. Questo rende il distillato particolarmente versatile. Eccole di seguito.

Quebranta: ha profumi e sapori che ricordano principalmente la frutta come banana, mela rossa, mela verde, pesca, nespola e un leggero tocco di lime, così come uvetta, noci pecan, fieno e miele.

Mollar: i suoi aromi e sapori ricordano la mela, la mela cotogna, la pera, la banana e la pesca, ma anche l’erba fresca e il miele.

Negra criolla: si avvertono aromi e sapori di frutta come mela, pesca, miele, erba fresca e fieno, così come cioccolato, toffee e caffè.

Uvina: aromi e sapori di frutta come mela, nespola, pesca, fragole, mango e banana, ma ha anche un delizioso tocco di olive verdi.

Italia: mostra aromi e sapori deliziosi e intensi di agrumi come lime, limone, mandarino e cedrina. Si avvertono anche uvetta bionda, miele e alcuni tocchi di fiori bianchi come gelsomino e fiori d’arancio.

Torontel: con aromi e sapori intensi ed espressivi che ricordano agrumi come lime, mandarino, ma anche fiori bianchi, fiori d’arancio e gelsomino. Non mancano i sentori di uva passa, miele, pesca e mela.

Moscatel: dal profilo aromatico elegante, ricorda rose, pesca, mela, vaniglia, mandarino, miele e lime.

Albilla: i suoi aromi e sapori si esprimono con note di pesca, albicocca, mela, erba fresca, lime, miele, uvetta, vaniglia.


Viñedo pisco Acapana. Caravelí. Arequipa

Il modo migliore per scoprire cotanta abbondanza identitaria è dedicare un viaggio intero alle zone vinicole del Perù, specialmente alla zona di Ica dove è presente la famosa Ruta del Pisco. In alternativa, ci serviamo delle parole di Lucero Villagarcía, sommelier e specialista del pisco, professoressa all’Università San Ignacio de Loyola (USIL) e negli Istituti di Alta Cucina D’Gallia e il Gastronomico Le Cordon Bleu, fondatore e presidente dell’Associazione La Magia del Pisco, editorialista della rivista specializzata Cocktail, membro fondatore dell’Alleanza Peruviana dei Sommelier (ALIPS), nonché autrice dei libri “El pisco en su terruño”, “La Guía del Pisco” e “La magia del pisco”, premiato dai Gourmand Awards come “Miglior libro sugli alcolici in Perù” e “Miglior libro sugli alcolici in Perù”.

«Il Pisco è un distillato peruviano prodotto dalla fine del XVI secolo. È una delle dieci denominazioni di origine che il Perù ha e, senza dubbio, la più importante per la storia e la tradizione che c’è dietro, più di quattrocento anni. Può essere prodotto nelle cinque “regioni pisqueras”: Lima, Ica, Arequipa, Moquegua e Tacna, e fatto solo con otto varietà d’uva specifiche. Ma, aspetto più importante, ci sono oltre 520 produttori di pisco, coloro che hanno mantenuto viva questa eredità peruviana per più di quattro secoli»


Lucero Villagarcìa

Perché si chiama pisco?

«Pisku è una parola quechua che significa volatile o uccello. Furono quindi gli Incas che, quando scesero nella zona costiera, vedendola piena di “piskus”, diedero al luogo quel nome, riferendosi agli uccelli che vi volavano sopra. Anni dopo, la casta di ceramisti dell’antica cultura di Paracas che andò a vivere a Pisco, era anche conosciuta come i “piscos”: realizzavano alcuni vasi che venivano chiamati “piscos” considerato che era il loro lavoro più noto. Vale a dire che Pisco era chiamato il luogo, la gente e le navi.

Anni dopo, gli spagnoli arrivarono in Perù e portarono le uve a partire dall’anno 1532, con le quali si iniziò a produrre vino verso la fine di quel decennio. Con il passare del tempo questo vino iniziò ad essere distillato, conservato ed esportato in “piscos” (recipienti). Così, il contenuto ha preso il nome del contenitore: pisco».

E riguardo la provenienza geografica?

«Senza dubbio ciò che dà diritto alla denominazione di origine è il luogo; anche se furono gli Inca a darle il nome e gli spagnoli a fondarla ufficialmente. Inoltre, nella prima mappa del Perù dell’anno 1574, Pisco già compariva. Nel caso del Cile, il rappresentante Gabriel Gonzales Videla decise di cambiare il nome di un luogo chiamato La Unión in Pisco Elqui nel 1936, per inventare una “origine” che in realtà non ha alcun fondamento».

Quindi possiamo dirlo una volta per tutte che il pisco è peruviano e non cileno?

«Certamente. Anche per quanto riguarda le differenze nelle loro caratteristiche, il distillato cileno passa attraverso botti di rovere. Non il pisco. Pertanto, gli aromi e i sapori provengono dall’uva stessa e ricordano frutta, fiori, spezie e in alcuni casi cioccolato o caffè. Quello cileno è un altro prodotto che non ha nulla a che vedere con il nostro».

E riguardo i tipi di produzione e di pisco?

«Secondo il Disciplinare della Denominazione di Origine Pisco, questo deve essere lavorato con singola distillazione (in alambicchi di rame o falcas) e discontinua (un solo lotto alla volta). Per quanto riguarda il suo grado alcolico, può avere un minimo di 38 gradi e un massimo di 48. Grazie a questo processo tradizionale regolamentato, la sua immensa varietà di aromi, sapori e sensazioni viene mantenuta, una cultura liquida proveniente direttamente dalle otto uve con cui è prodotto, nelle mani di un gran numero di accattivanti cantine di pisco sparse nelle cinque regioni di produzione».

E il Pisco oggi? Quanto è richiesto e apprezzato nel mondo? 

«Sebbene la pandemia di COVID e la situazione politica nel nostro paese abbiano influenzato la produzione e la commercializzazione del pisco, tra gennaio e novembre 2022 le esportazioni hanno registrato una crescita del 44% (USD 9.282.000), rispetto allo stesso periodo del 2021 (USD 6.464.000). Stando alle informazioni del presidente del Comitato Pisco dell’Associazione degli esportatori (Adex) del Perù, Carmen Robatty de Moquillaza. Sebbene siano numeri ancora modesti, si sta lavorando intensamente per raggiungere un maggiore posizionamento e crescita internazionale».

Riguardo l’uso del pisco invece? Come si beve e dove è utilizzato?

«Poiché ogni pisco è così diverso, ci sono molti modi per gustarlo. Ad esempio, bevendolo liscio, nei cocktail, in cucina, nei macerati e ovviamente anche nell’abbinamento, soprattutto con dolci e cioccolato.

Il pisco va servito in un bicchiere che gli permetta di ruotare e ossigenarsi in modo che emergano i suoi aromi. Occorre avvicinarsi lentamente al naso, visto che siamo di fronte ad un distillato di circa 42 gradi; ma poco a poco la sensazione di alcol diminuisce e puoi goderti uno ad uno i deliziosi aromi che possiede.

Poi lo si porta in bocca e, come dico sempre, “il pisco si prende a piccoli baci”, goccia a goccia, per sentire il ricco calore dell’alcol e i deliziosi sapori che ha. È un distillato con un ottimo grado alcolico, la stragrande maggioranza ha 42° e con una gamma di aromi così ampia da risultare interessante in miscelazione. In Perù esistono diverse ricette classiche come il pisco sour, il captain, il chilcano o il pisco punch, ma, in aggiunta, c’è un’enorme varietà di cocktail d’autore. E poi si possono preparare i cocktail classici internazionali come il “negroni”, che noi chiamiamo “zamboni”, e che io amo preparare con il pisco nero creolo».

Giornalista nato in Abruzzo e vissuto a Chieti finchè non ha ricevuto la “chiamata”: subito dopo il diploma infatti, comincia il percorso nell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo che lo ha poi portato a ciò che è oggi, un gastronomo. Specializzato nella cucina (e non solo) dell’America Latina, vive a Milano e conduce il suo programma televisivo “Mangio Tutto Tranne” su Gambero Rosso Channel.

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