Tequila
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Tequila, l’ombelico del mondo (alcolico)

Quattrocento anni di storia, dalla nascita delle distillerie storiche ai brand dei VIP di oggi

Tequila è semplicemente una cittadina fondata nel 1666, ma il fatto di trovarsi sulla strada che conduce al fiorente porto sul Pacifico di San Blas contribuisce a renderla popolare. Il boom avviene verso la fine del secolo, quando – dopo l’ennesimo periodo di proibizionismo spagnolo – la produzione di distillato viene di nuovo autorizzata. Nel 1795 José Maria Cuervo, figlio del fondatore di quello che oggi è il maggior produttore mondiale, riceve da re Carlo IV a Tequila la prima licenza. Il suo esempio viene seguito da altri e il gettito fiscale è talmente alto che parte dell’università di Guadalajara viene costruita grazie alle tasse sul distillato.

L’inizio dell’Ottocento è tumultuoso, ma Tequila e il suo distillato rimangono sulla cresta dell’onda sia durante la guerra d’indipendenza, sia durante quella contro gli Stati Uniti. La tequila, non ancora tequila di nome ma tequila solo di fatto (il marchio viene registrato solo nel 1974!), viene contrabbandata, “gira” fra i soldati. E Don Cenobio Sauza, capostipite del secondo produttore mondiale, capisce per primo che l’agave azul, fra le tante, è quella più vocata alla distillazione ed inizia ad esportare in Usa. 


Strade di Tequila
La città di Tequila

Durante i trent’anni di regime di Porfirio Diaz, quando le aziende crescono e il Paese si stabilizza, la tequila prende il volo. A fine Ottocento un “mezcal brandy de Tequila” vince una medaglia alla Chicago World Fair e pian piano i produttori di aguardiente di canna si convertono a lavorare l’agave. Nasce così il mito del distillato nazionale, “l’unica cosa che riassume la cultura messicana”: la tequila durante la rivoluzione diventa simbolo dell’eroe macho contro le interferenze francesi, tanto che Mariano Azuela nel suo romanzo Quelli di sotto scrive che “invece dello champagne, le cui bollicine si dissolvono nella luce delle candele, Demetrio Macias preferiva la tequila chiara di Jalisco”. E tanto che fioriscono etichette con nomi che rimandano a Pancho Villa

Discese ardite e risalite

La Seconda Guerra Mondiale, con l’inevitabile penuria di spiriti europei, fa sì che la tequila conquisti definitivamente gli Stati Uniti, tanto che negli anni ’40 la superficie agricola dedicata all’agave aumenta del 110%. Ma l’export diventa un’arma a doppio taglio: per venire incontro al palato dolce degli americani, negli anni Sessanta viene consentito di utilizzare zucchero di canna per la fermentazione. Una mossa che rovina la reputazione della tequila soprattutto in mercati terzi. Non in quello interno, in cui la tequila è saldamente ancorata all’immagine dell’hombre mexicano vertical, duro e tutto d’un pezzo. Le Olimpiadi a Città del Messico del 1968, la diffusione impressionante del cocktail Margarita e infine l’esplosione del turismo statunitense negli anni ’80 riportano la tequila a scorrere a fiumi, stavolta però come “party drink”. Sono gli anni della tequila bum bum, dei banconi ammaccati dai bicchierini con la Schweppes pestati per fare schiuma, degli shot, delle tequila sal y limon. Anni di consumo poco consapevole, seguiti da un’altra coda di polemiche sulla produzione sempre più industrializzata. Anni seguiti dall’attuale, incredibile rilancio. Ma prima di addentrarci ulteriormente nei dati, una volta riassunti cinque secoli di storia, è tempo di parlare di tecnica. 



Dalla piña alla colonna 

L’agave già nel 1596 era chiamata “albero delle meraviglie”. Le piante sono ricchissime di inulina, un polimero del fruttosio, e vengono raccolte non appena raggiungono la maturità sessuale. I jimadores tagliano allora il quiote (il germoglio) e le foglie con una lama particolare detta coa. Ciò che resta è la piña, che pesa da 70 a 110 kg e costituisce la materia prima della tequila. Le piñas vengono poi cotte: tradizionalmente in buche piene di sassi, sotto i quali veniva acceso un fuoco come ancora accade per il mezcal, oggi invece a vapore in forni autoclavi che consentono di ridurre da 36 a 6 ore i tempi. 

Il passaggio successivo è la macinatura: anche qui, la macina a dorso di mulo (tahona) ha lasciato spazio a strumenti tecnologici più evoluti. Il risultato è un liquido (aguamiel) che viene separato dal bagazo, ovvero le fibre di scarto. Il liquido viene poi messo a fermentare a temperatura controllata con ceppi di lieviti selezionati per un tempo che va dalle 20 ore ai tre giorni. Il risultato è un mosto tra i 4 e i 9 gradi alcolici, che poi viene distillato due volte. La doppia distillazione in alambicco discontinuo è stata sostituita – almeno per quanto riguarda i big che fanno volumi mostruosi – con una prima distillazione a colonna. 


La piña dell’agave

Una tequila, tante tequila 

Se il mezcal può utilizzare ogni varietà di agave (Espadin, Tobaziche, Tepeztate, Cupreata…), la tequila usa solo la Weber Blu, nella percentuale di almeno il 51%. E da disciplinare si può produrre solo in un areale molto limitato, che include lo Stato di Jalisco e alcuni territori negli Stati limitrofi di Guanajuato, Michoacan, Mayarit e Tamaulipas. Il che di fatto limita parecchio l’eterogeneità del prodotto.

Eppure, tanti sono i fattori che agiscono sul profilo sensoriale della tequila. L’età della pianta, la provenienza (l’agave delle Highlands è più grande e con uno sviluppo lento degli zuccheri, quella delle Lowlands tende a essere più robusta e terrosa), il lievito usato, la temperatura e la durata della fermentazione. È la chimica, bellezza. Cambia un dato e cambiano le interazioni, si crea più acido isoamilico, meno isobutanolo. Volano i terpeni, crollano gli esteri, si moltiplicano i furani, schizza l’eugenolo, si smarriscono i siringaldeidi… 

La chimica influisce anche nella maturazione. La tequila non invecchiata (comunque non oltre i due mesi) è detta platasilver o joven. Quella che passa da 2 a 12 mesi in enormi botti da 22mila litri è detta reposado, oro gold. Quella che passa da uno a tre anni in botti piccole è invece detta añejo



Il nuovo Rinascimento 

La definizione di un disciplinare sempre più serio e stringente, con le cosiddette NOM, le Normas oficiales mexicanas che definiscono i dettagli, ha contribuito a far rientrare la tequila nell’alveo del controllo e della qualità. Il Consejo Regulador de Tequila è l’organo preposto. E anche se certe scelte sono discutibili – dal 2004 si può definire tequila anche un prodotto aromatizzato, così come recentemente si è deciso di continuare a consentire l’imbottigliamento fuori dai confini, per non scontentare gli Usa -, di sicuro sta facendo un gran lavoro. Soprattutto per quanto concerne la rete di contatti internazionali per combattere i tentativi di lanciare tequila fatta all’estero, in Sudafrica, Spagna o Giappone

Al di là delle regole, da una decina di anni la tequila sta crescendo alla grande. Gli esperti dicono che fa tutto parte del più generale interesse per i prodotti esotici, ma ci dev’essere altro se nel 2020 in Usa ha fatto segnare un +20% (lo stesso risultato ottenuto in dieci anni di presenza sul mercato cinese), se il giro d’affari del 2021 è stato di 9.89 miliardi di dollari e quello atteso per il 2029 sarà di 15.57 miliardi, se le distillerie sono ormai più di cento e i brand oltre duemila. Insomma, hai voglia a spiegare questi numeri impressionanti con la passione per i sombrero e le maracas e i baffoni a manubrio. 


Il cocktail Margarita

E dunque, l’esotico non basta. C’entra anche il traino della mixology, con i grandi classici in cui la tequila la fa da padrona, dal Tequila Sunrise al già citato Margarita, fino al mitico Paloma. C’entra la premiumizzazione, con l’offerta di bottiglie che fanno status e che finiscono nelle bottigliere dei locali giusti. Senza arrivare al record della Tequila Ley .925 realizzata in oro e platino e venduta a 225mila dollari, basta prendere certe edizioni limitate di Patron o Clase Azul, che tanto ricorda la fittizia Zafiro Anejo che in un episodio della serie Breaking Bad viene avvelenata per sterminare un gruppo di narcos. E c’entra anche l’hype, ovviamente, con sempre più star che decidono di legarsi ai marchi. George Clooney ha venduto la sua Casamigos al colosso Diageo per un miliardo di dollari, ma nel giro ci sono anche l’attore e wrestler Dwayne “The Rock” Johnson con Teremana e la modella Kendall Jenner con 818 Tequila. 

Nemmeno i più lungimiranti tra i sacerdoti olmechi avrebbero potuto immaginare che sarebbe finita così… 

Classe 1982, è cresciuto a Cremona ma a Milano è nato, si è laureato, vive e lavora come giornalista: in sostanza, è fieramente milanese fin nel midollo. Proprio come il risotto. Quando non si occupa di cose più serie ma più noiose, scrive di distillati: ha collaborato con scotchwhisky.com, fa parte della squadra di whiskyfacile.com e tiene la rubrica settimanale “Gente di Spirito” sul Giornale, di cui è vicedirettore dal 2017. Forse in gioventù ha letto troppo, e così si è convinto che solo gli alambicchi non mentano mai e che da lì esca la vera anima degli esseri umani.

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