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Messico, agave e nuvole: Tequila da romanzo

L’incosciente corsa a ostacoli verso il successo mondiale del primo distillato nord-americano mai prodotto

I tuoi vulcani, le tue stelle, Ras Algethi, Antares che infuria a Sud Est: non esiste bellezza paragonabile a quella di una donna di Tarasco che beve e gioca a domino in un’osteria di primo mattino”

Nessun articolo o saggio perfettamente documentato può competere nel ricreare in così poche parole il mondo allucinato e magico di suggestioni ed evocazioni, disperazione e poesia che si allarga intorno alla tequila. Nulla come il romanzo Sotto il vulcano, una Divina commedia etilista scritta negli anni ’40 da Malcolm Lowry, un inglese alcolizzato, rende così istintivamente la complessa trama di piccole e grandi storie del distillato messicano per antonomasia.
Eppure, anche se non possediamo la stessa grazia della sua penna etilica, proveremo comunque a farlo. Proveremo a ripercorrere l’incosciente corsa a ostacoli verso il successo mondiale del primo distillato nord-americano mai prodotto, il primo distillato nord-americano a venire commercializzato. 

Il sangue divino dell’agave 

La tequila (l’italiano vuole il femminile, anche se in spagnolo è maschile) è un superalcolico che si ottiene dalla cottura, macinatura, fermentazione e distillazione dell’agave, e in particolare di una varietà chiamata Agave tequilana, o Weber Azul. L’agave, pianta succulenta – volgarmente: pianta grassa – delle Asparagacee, è tipica del Messico e gli esseri umani la consumano come fonte di vitamine e nutrienti dal 9.000 aC (hanno trovato tracce in fossili di escrementi: mestiere che sa essere bizzarro, quello del paleontologo…). 



Le infinite varietà crescono in tutto il territorio messicano, e durante il periodo degli Aztechi e degli Olmechi l’agave è diventata la base sia dell’artigianato, per costruire corde, tetti e carta, sia della dieta locale. Infatti, dalla sua linfa fermentata si ottiene fin dal 1.000 aC una sorta di “vino” chiamato pulque. Ora, per avere un’idea di quanto è importante la questione per gli indios, l’agave (che poi verrà chiamato maguey, termine importato dalle Antille) e il pulque si meritano anche due divinità dedicate: Mayahuel – la dea dei 400 seni – e il suo sposo Patecatl. 

Un nome, mille radici 

Prima di proseguire nella storia, già che siamo invischiati nella mitologia precolombiana, è il caso di chiedersi perché la tequila si chiami così. La risposta come sempre non è semplice. Le etimologie possibili sono diverse: una deriva dalla combinazione di due termini Nahuatl, ovvero tequitl (lavoro/mestiere) e tlan (luogo), per cui tequila significherebbe “luogo di lavoro”, “luogo di encomio”. Un’altra ipotesi fa derivare il termine da tetilla, poiché l’omonimo vulcano sembrerebbe un piccolo seno, mentre per alcuni significherebbe “roccia tagliente” e si riferirebbe all’ossidiana che si trova da queste parti; infine l’ultima, che semplicemente tira in ballo la popolazione locale, i Tiquilos. 

Poco importa, perché nella fattispecie la tequila si chiama così perché è prodotta nei pressi della città di Tequila, nello stato di Jalisco, a nord ovest di Guadalajara. Per cui ha perfettamente senso dire che la tequila si fa a Tequila, nella valle di Tequila, ai piedi del vulcano Tequila. Sembra un po’ buffo, tipo un discorso dei Puffi in cui si usa il verbo “puffare” per qualsiasi cosa, ma è esattamente così. Tequila è un toponimo. Il distillato eccellente prodotto in quella zona si è preso il suo nome per estensione, come il Cognac o lo Champagne. La tequila è semplicemente il mezcal fatto a Tequila, ma qui le cose si stanno complicando. 



Dal pulque al mezcal senza ritorno 

Prima di finire a parlare di vulcani e tette, stavamo facendo la conoscenza degli Aztechi. Cosa che fanno anche i Conquistadores spagnoli quando nel 1521 sbarcano in Messico con intenti poco amichevoli. Il basco Cristobal de Oñate, fondatore di Guadalajara, annota che i nativi fanno il vino dall’agave: lo chiamano pulque, o iztac octli (“liquore bianco”), ed è una bevanda sacra e rituale. Gli europei ci mettono l’arte dell’alambicco e, seguendo il procedimento già conosciuto per il brandy di Jerez, dal pulque si arriva presto al mezcal, che altro non è se non il distillato di succo d’agave fermentato. La cosa funziona, e anche se il re di Spagna inizialmente vieta tutte queste pozioni per non danneggiare i prodotti della madrepatria come il brandy, il marchese di Altamira Don Pedro Sanches de Tagle, con grande “vision” si direbbe oggi, scorge subito il business: a fine Cinquecento fonda l’Hacienda Cuisillos, aprendo la via ai produttori proto-industriali. 

Nel Seicento – dopo l’autorizzazione regia alla distillazione che consente di riscuotere anche le tasse – il “mezcal wine”, come viene chiamato, si diffonde sempre più, ma è nel Settecento che compare sugli atlanti degli spiriti la cittadina di Tequila.

Classe 1982, è cresciuto a Cremona ma a Milano è nato, si è laureato, vive e lavora come giornalista: in sostanza, è fieramente milanese fin nel midollo. Proprio come il risotto. Quando non si occupa di cose più serie ma più noiose, scrive di distillati: ha collaborato con scotchwhisky.com, fa parte della squadra di whiskyfacile.com e tiene la rubrica settimanale “Gente di Spirito” sul Giornale, di cui è vicedirettore dal 2017. Forse in gioventù ha letto troppo, e così si è convinto che solo gli alambicchi non mentano mai e che da lì esca la vera anima degli esseri umani.

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