Negroni Park Hyatt
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CONVERSAZIONI SUL (E DAVANTI A UN) NEGRONI

Metti una sera al Park Hyatt lo storico bartender Paolo Baldini, un libro, infiniti aneddoti e 50 sfumature del cocktail più bevuto al mondo. Con qualche sorpresa 

Non tutti i miti sono uguali. Ci sono quelli che guadagnano fama internazionale ma rimangono avvolti nel mistero, tipo la Coca Cola con la sua ricetta segreta. E ci sono quelli di cui si sa tutto, che mettono in piazza la loro semplice perfezione ma non per questo il loro allure diminuisce, come il Negroni

Il cocktail italiano per antonomasia, anche nel 2023 il più bevuto e ordinato al mondo, è così: una coccola quotidiana, un cerchio giottesco di sapori, una piccola cosa di ottimo gusto, il noumeno della gioia calato nell’empirismo dell’aperitivo. Eppure, per quanto quasi banale possa essere la formula magica – un terzo bitter, un terzo vermut rosso e un terzo gin – il Negroni non va mai dato per scontato. Perché un secolo abbondante di storia significa radici che affondano in profondità nella cultura italiana. 

Quando vengono servite le pizzette fatte a mano e le mandorle salate, tutti questi pensieri filosofeggianti di dubbia pertinenza svaniscono come i taxi durante la settimana della moda a Milano. D’altronde non c’è niente come i concretissimi stuzzichini per riportare i divagatori al “qui e ora”. E il “qui e ora” è presto detto: siamo al Mio Lab, il cocktail bar del Park Hyatt hotel di piazza Duomo, per una serata in onore appunto del Negroni in pensieri, parole, opere e libagioni. 

L’occasione è la Negroni Week, ovvero la settimana dedicata alla celebrazione di quel drink che tra il 1919 e il 1920 nacque nella profumeria-drogheria “Coloniali Casoni” a Firenze, con il nome tutt’altro che ufficiale di “Americano alla maniera del Negroni”. Durante ogni celebrazione, va da sé, si mischiano passato, presente e futuro, si shakera e si serve agli incuriositi invitati. E anche in questo caso va così. La storia secolare del cocktail e del suo creatore, il conte Camillo Luigi Manfredo Maria Negroni, sono materia di Paolo Baldini, mitologico barman toscano e autore del libro Tutto ciò che non sai sul Negroni (Porto Seguro edizioni, pagg. 147, euro 14.90); la realizzazione dei cocktail in quattro versioni sono materia del bar manager ospite di casa, Alessandro Iacobucci Vitoni, e del suo team. Il resto? Beh, il resto sono chiacchiere, domande, aneddoti, dibattiti. Una conversazione sul Negroni. What else?, chiederebbe George Clooney in astinenza da caffeina. 


Il bancone del Mio Lab al Park Hyatt di Milano

Di come il conte Negroni – spadaccino tra Fiesole e New York, cowboy nel Wyoming e bon vivant tra Londra e l’Arno – convinse il banconiere del Casoni Folco Scarselli a sostituire la soda con il gin per avere un aperitivo “rinforzato”, si è letto qui e là. L’originalità del conte, i clienti che lo notavano e chiedevano anche loro di bere “quel che si fa fare il Negroni”: storia nota, cesellata nel vetro di infiniti bicchieri. Ma quel che Baldini può fare è andare oltre, avendo frequentato chi il conte lo aveva davvero conosciuto e in quel bar c’era, come Gigi Senesi e Vittorio Fabbri. Che lui ha torchiato allo sfinimento per raggiungere una verità: ovvero com’era il primo, originale Negroni cocktail. 

«Innanzitutto – racconta con il suo delizioso accento – dovete pensare che a Firenze, da quando era stata capitale del Regno d’Italia, i locali, le caffetterie di qualità, erano esplose. Non come oggi che ce ne saranno al massimo una decina… In quei locali si ritrovavano i nobili, i dandy, gli intellettuali. Erano caffè che vendevano spezie e anche liquori, soprattutto italiani, ma pochi distillati. La grappa era popolare, il brandy era chiamato cognacchino… Ma c’erano gli spiriti stranieri. E quando il conte Camillo chiese di irrobustire il suo Americano, che andava di moda allora come oggi va di moda quella bischerata dello Spritz, la scelta cadde subito sul gin». 

Già, il gin. Ma quale? Per Baldini deve necessariamente essere un London Dry, ma la marca che si utilizzava al Casoni nel 1920 non si conosce: «Sono risalito a un’unica certezza – ricorda -: il bitter Campari. Quello c’era di sicuro. Il gin e il vermut, invece, sono ignoti». Noto è invece come veniva servito il Negroni all’alba dei suoi tempi: «Innanzitutto non immaginatevi i tumbler di oggi. Si tramanda che il conte riuscisse a berne una quarantina al giorno. Per forza, erano serviti in calicini piccini, come quelli da Porto». Tu chiamali, se vuoi, Negronetti. Con buona pace dei salami di Cremona… Altra curiosità è che il drink veniva servito a temperatura ambiente, dato che il ghiaccio era venduto solo in pezzature enormi. 


Il Negroni classico del Mio Lab

Il ghiaccio, ancor più delle dosi, è una porta dimensionale che dalla Firenze degli anni Venti ci riporta al bancone del Mio Lab, dove vengono servite delle varianti del Negroni, tutte con bicchiere da freezer e cubo di ghiaccio XL: il classico (Cocchi, Tanqueray e Campari) e le tre alternative in lista, tutte richiestissime dai clienti e tutte rigorosamente a base gin italiano. Si parte con il fresco e delicato Taac (gin Giass aromatizzato allo zafferano, vermut bianco e bitter bianco), si passa dall’affascinante ed erbaceo Conte in spiaggia (Ginarte, Campari e vermut rosso Macchia al mirto) e si chiude con Ettore (gin Seven Hills, vermut bianco, Campari, bitter al caffè e Rabarbaro Zucca), ideale per il dopocena. «L’idea di variare piace – racconta Alessandro -. I bevitori di Negroni continueranno a ordinare l’originale, ma a noi piace sperimentare e offrire una chiave di godere il cocktail anche a chi il Negroni di solito non lo berrebbe. Come facciamo con l’Americano, in cui variamo le sode fatte in casa a seconda della stagionalità».

L’irrompere della contemporaneità, con le infinite sfumature che il Negroni ha assunto nella sua corsa verso il successo globale, spinge la conversazione su diversi binari. Ci si chiede ad esempio quale sia il segreto della sua popolarità. Certo il colore, quel rosso “rubino magnifico”, ha un peso. Ma Paolo ha le idee chiare: «Il boom internazionale è merito della dolce vita in Versilia. Tra Anita Ekberg e l’Avvocato Agnelli, era l’everytime drink al Caprice, alla Bussola e alla Capannina». E poi c’è la vera chiave: «L’equilibrio: il Negroni è una formula perfetta in cui i vari sapori non solo si uniscono senza prevaricarsi l’un l’altro, ma che si intensificano». Eppure, cosa poco nota, il Negroni ha rischiato di non essere “codificato” così: «Quando a Saint Vincent l’IBA (International Bartenders Association, ndr) si riunì per convertire la ricetta ufficiale dalle parti ai decimali, spuntò un problema: 3/10 gin, 3/10 bitter, 3/10 vermut. Mancava un decimo e c’era chi proponeva di aumentare uno dei vari ingredienti…». 

Si avvicina la fine della serata, ma c’è tempo per chiedere qualche consiglio al maestro: come si fa il Negroni, quali sono gli errori da evitare? Baldini scoppia a ridere: «Sbagliare un Negroni è difficile, eh! Se lo sbagli è meglio che ti versi una gazzosa… Anche senza jigger, che personalmente io odio perché un bartender il misurino deve averlo in testa, non cambia molto se ti scappa la mano su uno o sull’altro ingrediente. Ecco, due consigli posso dare: il primo è di non esagerare col ghiaccio, vedo bar in cui i bicchieri debordano di cubetti… Il secondo è più un trucchetto: io sono sempre partito a versare dal Campari, ma per una questione di peso specifico, se si parte dal gin, poi il bitter e alla fine il vermut che è più pesante, gli ingredienti si mescolano da soli».. 

Non si finisce mai di imparare. E di avere voglia di sorseggiare un Negroni. 

Classe 1982, è cresciuto a Cremona ma a Milano è nato, si è laureato, vive e lavora come giornalista: in sostanza, è fieramente milanese fin nel midollo. Proprio come il risotto. Quando non si occupa di cose più serie ma più noiose, scrive di distillati: ha collaborato con scotchwhisky.com, fa parte della squadra di whiskyfacile.com e tiene la rubrica settimanale “Gente di Spirito” sul Giornale, di cui è vicedirettore dal 2017. Forse in gioventù ha letto troppo, e così si è convinto che solo gli alambicchi non mentano mai e che da lì esca la vera anima degli esseri umani.

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