Dopo la top ten, una breve galleria di assaggi rivedibili e qualche brutta esperienza
Elencare quel che ci è tanto piaciuto è sempre facile. Rievocare quello che avremmo preferito non fare – o non assaggiare, in questo caso – è molto più complicato. Quest’anno al termine del Milano Whisky Festival proviamo a mettere in fila qualche dram che difficilmente riberremmo. Intendiamoci, siamo sempre e comunque contenti di averli bevuti, perché solo chi assaggia può giudicare.
Però insomma, questi che seguono magari la prossima volta anche no…
Killowen Poitin Pangur PX Whiskey (47%)
Partiamo dalla cosa più terribile che abbiamo sorseggiato, spinti dalla curiosità di provare un Poitin, ovvero il whiskey irlandese non invecchiato che per secoli ha orgogliosamente accecato e avvelenato generazioni di contadini da Dublino a Galway. Questo è prodotto da Killowen, una delle distillerie della new wave di produttori di Irish whiskey, e fa un passaggio in botti di sherry Pedro Ximenez. Difficile dire di cosa sappia, fa venire i brividi avvicinandolo al naso. Sa di cattiveria e brutti sentimenti, cannella e voglia di sonno eterno.
Goalong blended whiskey (40%)
Blended cinese che abbiamo provato a fine Festival, dopo aver passato tre giorni cercando di resistere alla curiosità. Forse avremmo fatto meglio a resistere, in effetti. Somiglia a una vodka con cui qualcuno ha sciacquato lo zerbino dell’ingresso. Debole, sgraziato, senza corpo, con quelle inconfondibili note di colla vinilica, cartone e pennarelli indelebili. Un whisky “art attack”, insomma, di cui non si sentiva esattamente la mancanza.
McPink blended whisky (House of McCallum, 40%)
Qui siamo in altri lidi, nulla a che vedere con i precedenti terribili che abbiamo descritto. Semplicemente, questo blended che invecchia in botti di Porto è di un colore talmente spinto da sembrare artificiale. E un po’ artificiale sembra anche al palato, dove la dolcezza del barile si scontra con un corpo esilino. Non ha enormi difetti, l’alcol è anche ben integrato, ma l’effetto generale è deludente.
MILANO WHISKY FESTIVAL: 10 PICCOLI ASSAGGI
Chicche, sorprese e colpi di genio. Il meglio dei dram degustati alla 18^ edizione dell’evento milanese dedicato al whisky
Tullamore DEW irish whiskei (40%)
Irish whiskey da supermercato, da consumare a galloni. Una bevanda corroborante che tanto ha fatto per lo sviluppo della cirrosi nella magica isola verde. La domanda è: perché portarlo a un festival e fargli condividere gli scaffali con prodotti da super nerd? Inevitabilmente ne esce con le ossa rotte, assaggiarlo dopo un single malt lo fa assomigliare a un tè senza teina, è tristemente scarico al confronto. Innocente vittima di scelte discutibili.
Kamiki Intense wood Whisky (2022, 48%)
Il mondo del whisky giapponese sa essere spietato: picchi di eccellenza e profondi abissi. Succede dunque che accanto ai brand più noti si siano negli anni accatastati marchi meno trasparenti come comunicazione e meno straordinari come qualità. Kamiki senz’altro non è il peggiore, ma l’uso di botti di cedro è così invasivo che tutta la bevuta – e parecchio tempo dopo – è dominata dalle spezie. Dominata nel senso di invasa, bombardata, soggiogata. Tutti vocaboli poco gentili.
Abasolo Whisky del messico (43%)
Chiudiamo con una di quelle cose che potenzialmente e idealmente sono bellissime, ma poi no. Nel senso che Abasolo è un whisky messicano e già questo lo rende simpatico. Inoltre, è prodotto con il 100% di mais locale, il che accende l’interesse. Purtroppo, però, poi c’è la prova dei sensi, e quella Abasolo non la passa: domina il tutto una inevitabile nota di polenta che si fonde a un alcol aggressivello.