In giro nel cuore dei Caraibi alla scoperta del Clairin, il distillato di canna da zucchero che esprime lo spirito più profondo del terroir
– di Marco Zucchetti pubblicato su S.A.M n° 3 –
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Non è rum, non è rhum agricole: il distillato di succo di canna prodotto nei capanni sparsi nell’isola più povera del mondo è una gemma nascosta. Orgogliosamente ancorata alla natura, alla cultura e all’ideale della diversità.
IL CLAIRIN
La faccenda più complicata, quando si parla del clairin haitiano, è cercare di spiegare a parole come possa uno spirito uscito da alambicchi ricavati da bidoni di benzina abbandonati e venduto in taniche di plastica ai bordi di strade sterrate essere la più pura espressione del distillato di canna caraibico.
Eppure, nella terra indomita delle contraddizioni feroci ed entusiasmanti, non c’è nulla di più vero. Il clairin (dal termine creolo kleren, ovvero “chiaro”) è un distillato non invecchiato di succo di canna da zucchero, tipico di Haiti. Un rum bianco, dice qualcuno; un rhum agricole, dice qualcun altro.
Tecnicamente, nessuno dei due. Il clairin arriva direttamente dal passato, dal Settecento coloniale, quando gli schiavi neri provenienti dall’Africa occidentale finivano nelle piantagioni dei francesi. Lì, come gli schiavi in Brasile con la cachaça, distillavano quel che avevano a disposizione, producendo un’aguardiente grezza per l’autoconsumo.
LO SPIRITO DI HAITI
Ecco, il clairin è arrivato a noi totalmente incontaminato dopo più di due secoli, come se gli alambicchi rudimentali che lo distillano fossero macchine del tempo. C’è un motivo per cui lo “spirito di Haiti” si è preservato quasi miracolosamente, mentre tutti gli altri distillati sono andati incontro a innovazioni tecnologiche e a una raffinazione di gusti.
Nel 1804, dopo quasi due secoli di dominazione prima spagnola e poi francese, Haiti è stata la prima colonia a ribellarsi e ad ottenere l’indipendenza sotto Jean-Jacques Dessalines, il “Napoleone nero”. Nell’epoca moderna degli imperi e delle compagnie di commerci, la rivolta afro-caraibica non poteva essere tollerata e per questo Haiti è stata di fatto cancellata dallo scacchiere internazionale.
Dimenticata dal progresso, ignorata dalla rivoluzione industriale, tralasciata dalla scienza e dalla medicina. Haiti, prima repubblica negra della storia, è rimasta incastonata nel suo crogiuolo culturale di fine XVIII secolo come una zanzara giurassica nell’ambra.
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IL VOLTO SPORCO DEL TERROIR
E il clairin, simbolo di quel meltin pot in cui le credenze vudù si mescolavano con il cattolicesimo, il francese con la lingua Fon, è rimasto esattamente identico a se stesso, eppure geneticamente diverso. Il primo motivo di differenza è agronomico. Ad Haiti crescono spontanee infinite varietà di canna da zucchero selvagge, non ibridate: è il Bengodi della biodiversità.
Varietà ancestrali, che hanno resistito perché mai a nessuno è venuto in mente di selezionarne di più “competitive” e produttive. Così come a nessuno è venuto in mente di usare pesticidi, fungicidi e prodotti del genere.
Il Bengodi della biodiversità è quindi anche un Bengodi biologico, in cui la materia prima è regina e venerata, anche se completamente esposta agli agenti atmosferici, agli insetti, alle alluvioni.
Il clairin è il volto sporco del terroir, quello senza il marketing della Borgogna e dello Champagne, per intenderci. La seconda ragione dell’unicità del clairin sta nel particolarissimo tessuto produttivo. Che detta così sembra lasciar intendere un “sistema”, ma che in realtà è qualcosa di ben diverso. Ad Haiti ci sono quasi 600 guildive, traslitterazione creola di “kill devil”, il nomignolo con cui era conosciuto il rum.
LA PRODUZIONE
Più che distillerie come le intendiamo noi, sono quasi sempre capanni derelitti con un tetto di lamiera arrugginita sotto il quale un contadino alimenta un fuoco che scalda un alambicco spesso rudimentale. Ogni villaggio ha una chiesa, un pozzo e una distilleria in cui si lavora la canna che si coltiva in loco e si produce clairin per la comunità.
Ogni distillatore fa a suo modo con quel che ha, ragion per cui ci sono tanti tipi di clairin quanti alambicchi. Tecnicamente, il procedimento è al di là dell’artigianalità: la canna si raccoglie a mano, con il machete, e trasportata a dorso di mulo.
Lo stesso mulo si aggancia quindi a una macina con cui viene estratto il succo, che poi si lascia a fermentare utilizzando i lieviti selvaggi e spontanei, talvolta aggiungendo pure frutta ed erbe.
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Il fermentato si sottopone quindi a distillazione singola in alambicchi (un mix di pot still e colonne creole) e consumato così, senza diluizione né invecchiamento. Al massimo, viene aromatizzato e venduto in secchi o taniche nei mercati, tra i polli e le capre, e consumato dalla popolazione che trova troppo costoso anche il più basico dei rum bianchi di Barbancourt, la distilleria più rinomata del Paese. Se è definito “il rum dei poveri”, un motivo c’è.
UN AFFACCIO SUL MONDO
Eppure l’oro di Haiti da qualche anno sta aprendosi al mondo. Merito di Luca Gargano, patron dell’azienda genovese Velier, che nel 2012 nel corso dei suoi pellegrinaggi caraibici alla ricerca di grandi rum, si è imbattuto in questa realtà così anacronistica da sembrare magica.
I metodi antichi, la semplicità, la natura al suo stato primigenio, lo hanno convinto del potenziale.
In collaborazione con la francese Maison du Whisky, ha iniziato a vagare per Haiti, assaggiando centinaia di clairin, e scovando i migliori, quelli che – come i mezcal dei palenqueros – riflettono tre cose: la materia prima, il villaggio, la mano del distillatore.
Il risultato è una serie di imbottigliamenti esemplificativi dei diversi stili, da Sajous a Laval, da Casimir a Le Rocher, che sono stati esportati in Italia, dove nel 2018 è stato creato il presidio Slow Food, e anche negli Usa, dove i bartender si sono innamorati delle note fruttate e vegetali del clairin.
Crudo, nudo, funky, rustico, divisivo, spigoloso, senza compromessi, locale: abbastanza per incuriosire una generazione di appassionati di spiriti. E per far nascere in Gargano una pazza idea: provare ad invecchiarlo, creando un clairin “ansyen” in cui la sua irruenza erbacea possa venire levigata e ingentilita dal legno.
È così che il distillato più resistente alla modernità e alle classificazioni, figlio legittimo dell’unico “Paese dove vivere per davvero è ancora legale”, come ama dire Gargano, è diventato di culto. Elitario, certo, ma raccontato e assaggiato con piacere.
E mentre nell’isola “più Africa dell’Africa”viene versato per terra in omaggio ai loa (gli spiriti vudù) e bevuto a fiumi con la zuppa di zucca joumou a capodanno o durante la Fét Gede, il giorno dei morti, in giro per il mondo il clairin conquista adepti, diventando trendy. Il rum dei poveri è diven