Ricaduta sugli agricoltori, persi almeno 40 milioni in due anni e la qualità dell’alcool importato è peggiorata.
Tra i casi di autocastrazione dell’Europa verso le proprie industrie, un posto di rilievo lo merita l’alcool alimentare e non solo per le perdite economiche legate all’adozione di un discutibile regolamento di preferenze generalizzate (Spg plus, in gergo burocratese), ma anche per le implicazioni che esso comporta.
Il mercato italiano, in termini di consumo, è stimato sui 150 milioni di litri l’anno di alcool etilico destinato alla produzione di alimenti (pane, dolci e molto altro) e bevande alcoliche, tra cui i nostri liquori, diventati un punto di riferimento nel mondo e una categoria di assoluto prestigio. Di questi 150 milioni di litri, un 60% circa è di produzione nazionale e deriva principalmente dalla distillazione dei cereali, perché l’alcool da filiera vitivinicola ha, per normativa, una destinazione diversa e si colloca su una fascia di prezzo di due volte e mezzo superiore a quella dell’alcool da cereali.
Un regolamento europeo consente l’importazione duty free da un Paese che vieta il consumo di alcolici.
Il restante 40% viene da sempre importato da altri Paesi europei, principalmente dalla Francia che è il primo produttore continentale nella categoria. E così è stato fino a quando l’Italia, come tutti gli altri Paesi in Europa, non si è trovata sommersa da alcool di importazione extra Ue per effetto proprio di questo Spg plus che ha permesso a una nazione dove il consumo di alcolici è vietato, di poter esportare liberamente in Europa. E per liberamente si intende senza dazi. Questo Paese è il Pakistan.
Alcool alimentare, addio a 30 milioni l’anno
L’accordo Spg plus tende a sostenere le economie di nazioni a basso reddito, con l’obiettivo di sviluppare regole di buon comportamento quali la tutela dei lavoratori, lo stop al lavoro minorile, l’instaurazione di sistemi sociali paritari, il rispetto dell’ambiente. In una sola parola: una produzione etica. «E non mi pare che il Pakistan abbia fatto significativi passi in avanti a riguardo», dichiara a Spirito Autoctono Antonio Emaldi, presidente di Assodistil, associazione che raggruppa i principali distillatori italiani.
Risultato: il Pakistan, dove la distillazione non è legata ai cereali bensì alla canna da zucchero, rappresenta una spina nel fianco dei produttori europei e ancor più di quelli italiani. «Dal 2022, queste importazioni massicce hanno determinato una perdita di circa il 40% della produzione nazionale. Ciò significa che, a fronte di un fatturato industriale di circa 80 milioni l’anno, di milioni se ne perdono circa 30 e vanno a vantaggio dei trader che importano dal Pakistan», precisa Emaldi. Il quale evidenzia, peraltro, che per lo Stato non cambia assolutamente nulla perché le accise – il cui peso è enorme, valgono 15 volte il costo industriale del prodotto – si applicano non sul valore, bensì sui volumi: il conto fiscale quindi è lo stesso a prescindere che l’alcool sia prodotto in Italia, in Europa o nel resto del mondo.
Così però il danno risale a catena, dalle distillerie fino agli agricoltori, che devono rinunciare a una componente non secondaria di reddito, perché se i distillatori perdono denaro, dovranno condividere la perdita con qualcuno, e quel qualcuno saranno proprio gli agricoltori.
«Questa – sbotta Emaldi – si chiama concorrenza sleale. In Italia affrontiamo costi enormi di energia, logistica, normative e sostenibilità, a fronte di minori rincari. Chi controlla come producono le distillerie pakistane, che esportano a basso prezzo?».
Tre aziende maggiormente colpite dall’importazione di alcool alimentare pakistano
La “botta” delle mancate vendite viene principalmente assorbita e suddivisa tra tre operatori, i leader della distillazione nazionale. Si tratta, in ordine di grandezza, di Sedamyl, Caviro Extra e Sacchetto: la prima e la terza distilleria sono basate in Piemonte, provincia di Cuneo, mentre la seconda ha sede a Faenza ed è la società del Gruppo Caviro (il colosso cooperativo del vino) specializzata nella valorizzazione degli “scarti” di filiera. «L’attuale scenario di mercato dell’alcol alimentare è quanto mai incerto», riconosce Gabriele Bassi, site operation manager di Caviro Extra. «Dopo il periodo del Covid, che ha visto volumi in forte espansione non solo per l’alcol ad uso industriale – denaturato e non – ma anche per quello alimentare, il mercato è tornato ai valori precedenti, sia in termini di volumi che di prezzi. Sia i grandi gruppi che le piccole realtà stanno fronteggiando un calo generalizzato dei consumi, che va a penalizzare principalmente i beni non di prima necessità. A questo calo della domanda, si aggiunge la concorrenza di prodotto proveniente da paesi che, non rispettando gli standard produttivi ed etici che aziende come le nostre pretendono, riescono ad avere prezzi molto più economici». A questo proposito, Bassi sottolinea che: «Ci stiamo battendo nelle sedi opportune per la reintroduzione dei dazi da quei paesi che, come accennato sopra, possono contare su standard produttivi più economici».
Se va bene, se ne parla il prossimo anno
Arriviamo quindi alle reazioni. Come si può premere sull’Europa affinché non causi ulteriori danni al sistema distillatorio italiano ed europeo? Antonio Emaldi risponde così. «Come Assodistil, insieme alle altre associazioni europee di categoria, abbiamo segnalato tutte le conseguenze negative del regolamento tra perdita di produzione, occupazione, povertà sociale. E abbiamo chiesto tutela. Le risposte della commissione, causa burocrazia elefantiaca, sono tutt’altro che celeri. Siamo ormai alla fine del 2023 ma a Bruxelles stanno ancora esaminando i dati 2022 per poter prendere una decisione che potrebbe essere attuata solo nel corso del 2024. Intanto il conto dei danni aumenta. I trader sono perfettamente nell’ambito della legalità e fanno il loro lavoro, che però è in antitesi con gli interessi dell’industria europea e di quella italiana in particolare».
Poi c’è un’altra conseguenza: il livello di qualità legato ai prodotti realizzati con l’impiego di alcool alimentare. E qui non parliamo di pan carrè, bensì di liquoristica. È possibile che l’utilizzo di un alcool alimentare di bassa qualità possa peggiorare il livello dei nostri spirits, diventati un prodotto di punta a livello internazionale del made in Italy? «Premettendo – replica il presidente di Assodistil – che il prodotto di importazione risponde perfettamente alle specifiche di legge, l’industria europea è decisamente più avanti di quella pakistana e l’alcool ottenuto a livello italiano ed europeo è migliore. Ma in un momento nel quale tutti i compratori industriali devono risparmiare, si tappano il naso e scelgono qualcosa che è peggiore sotto ogni aspetto, ma lo comprano lo stesso. Poi l’industria liquoristica è comunque in grado di rimediare, perché gli aromi coprono o rendono meno evidenti i difetti presenti nell’alcool che non vengono percepiti nel prodotto finale. O almeno non da tutti».
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