Dalle birre ai gin, passando dal saké, cosa portare su un’isola deserta (insieme a un accendino, una canna da pesca e un coltellino svizzero)
Non è che uno parta per un’isola deserta con in mente soltanto gli Old Fashioned, eh. O meglio, se parte con quel chiodo fisso farebbe meglio a fare un giro in un centro per la cura delle dipendenze prima del volo. Ad ogni modo, dato che il drink è il miglior amico dell’uomo che sta bene con se stesso, è naturale che davanti all’idea di emulare Robinson Crusoe ci possa venire un dubbietto: belle le palme, bello il mare, bello il relax e il telefonino che non prende. Ma io poi sull’atollo solingo cosa bevo? Dato che l’acqua di cocco ve la berrete voi, noi qui siamo per rispondere al dubbietto e aiutarvi a fare la valigia. Perché sappiatelo: il gin giusto conta più del costume.
Premesso che sull’isola un frigorifero col ghiaccio c’è (altrimenti andiamo a Gabicce mare, sia chiaro), partiamo proprio dal gin, ovviamente con la tonica. Da catalogare rigorosamente come presidio medico, dato che il chinino dell’acqua tonica era fondamentale durante il colonialismo per debellare la malaria. Quindi il gin tonic vale come i fermenti lattici, non si discute. Vi servirà un gin solido, di quelli che sanno di ginepro e agrumi e poco altro, che va bene tutto, ma sull’isola dovrete trovarvi da mangiare, difficile che incappiate in cetrioli e fiorellini per guarnire cocktail arzigogolati che esaltano gin barocchi. Sostanza e duttilità: No.3 di Berry Bros è il nostro consiglio. Ha pure una chiave di metallo incollata sulla bottiglia, sai mai che serva per qualche forziere o giù di lì. Altrimenti, omaggio a un’altra isola, andiamo di Giniu di Silvio Carta, un bigino di isolanità sarda.
Sistemata la questione sanitaria col gin tonic, passiamo all’altra esigenza: idratarsi. Come ci hanno spiegato decenni di spot sui cosmetici, l’idratazione è importante, e ancor di più lo è in zone tropicali dove l’acqua ha la spiacevole controindicazione di suscitare dissenterie tsunami. Ergo, birra sia. Birra chiara e rigorosamente industriale, che non vogliamo sorprese di conservazione e comunque deve essere pronta a finire in mare, in spiaggia, nello stomaco di uno squalo bianco”…
La scelta non è semplice, ve ne diamo 3 (più due): senz’altro la New England Ipa “Hazy Jane” di Brewdog, luppolata e tropicale, roba da amaca pura; tra i colossi mondiali, andremmo con la lager tedesca Warsteiner, che è sempre un bere rilassato; infine ci concediamo una pilsner, la ceca Pilsner Urquell, perché ne berremmo a ettolitri, anche in trasferta. E le due extra? Sono la Lone Star “High desert days” con agave e ibisco e una Shandy (o Radler), ovvero birra e limonata. Sinceramente, dopo una giornata passata a spaccare cocchi e pescare barracuda, non c’è nulla di meglio.
Abbiamo detto agave e dunque l’aggancio è immediato. Vi servirà della tequila, su quella dannata isola, corpo di mille balene. Tequila e non mezcal, perché già la sopravvivenza è ardua in un contesto del genere, non è il caso di aggiungere difficoltà con il carattere zozzo e sgarbato del mezcal. Si vada di tequila semplice, che con la frutta esotica che troverete (a proposito, questa isola non è alle Lofoten vero? Che qui ci stiamo attrezzando per una cosa caraibico-tropicale, non facciamo scherzi) ci va a nozze come il tabasco sulla carne alla griglia.
E poi ci scappano anche dei Margarita da volare via. Scegliamo la Volcan de mi tierra, ma non la versione XA millesimata. Dai, il millesimato sull’isola non si può sentire, è come andare in cravatta di jacquard alla lotta nel fango…
Per la stessa ragione di frutta, esotismo e voglia di commistioni sensuali con popolazioni creole estinte, non si può rinunciare a un rum. Però per cortesia niente roba invecchiata dal peso specifico del cobalto. No, a voi serve un rum da pirati, fresco e fruttatissimo, da rum punch. Un torcibudella con cui sentirvi Johnny Depp un filo più appesantito, qualcosa che funzioni con del passion fruit e dell’ananas. Daremo due idee: una è il rum più venduto di Giamaica, il Wray & Nephew Overproof, il quale – essendo a oltre 60% – può funzionare anche come acqua ossigenata in caso di ferite. L’altro consiglio è invece una chicca, il distillato di succo di canna haitiano, chiamato Clairin. Consigliamo quello di Sajous.
Chiudiamo il discorso distillati con un whisky, non perché vogliamo rischiare l’highball (sempre la storia della maledizione di Montezuma…), ma perché di sera davanti al fuoco non c’è niente di meglio al mondo. Qui vogliamo dare due opzioni: la prima che strizza l’occhio al falò sulla spiaggia, quindi ecco un torbato fresco e marino come il Kilchoman Machir Bay, che sempre da un’isola viene, e anche non troppo popolata, come la scozzese Islay. La seconda invece strizza l’occhio all’esotismo, quindi altro whisky isolano, il Kavalan da Taiwan. Scegliamo l’ex bourbon cask, più dritto ed estivo rispetto agli invecchiamenti in barili di vino rosso, porto o sherry.
In ultimo, tre cosine a gradazione più bassa. Un vino, bianco ovviamente, che chissà quanto pesce mangeremo laggiù: il Salina bianco di Hauner, vitigni Catarratto e Inzolia dall’isola (e daje…) siciliana, fresco e sapido.
Poi un sakè: Ninki Ichi Platinum, un junmai daiginjo, cioè prodotto senza aggiunta di alcol e con chicchi di riso levigati al 50%, eccezionalmente vellutato, minerale, con questa nota di litchees che ti viene voglia di chiedere a Venerdì se gli va di ballare sotto le stelle. Infine uno Champagne, per brindare all’aereo che finalmente risponderà al vostro mayday: Henri Giraud Esprit Nature, quale miglior scelta dopo tanto tempo vissuto selvaggiamente allo stato brado?