Ovvero come convincere le aziende di spirits a lasciare a casa i manuali di story-telling e scegliere i propri ambassador invitandoli al bar
Non è carino, è vero. Ma per le parole affettuose ci sono i genitori, i partner e gli amici. Qui si vuole solo sottolineare come un nuovo spettro si aggiri per i vernissage e i lanci di nuovi alcolici. Un mostro figlio del suo tempo, una minaccia di banalizzazione in grado di cavare l’anima anche al più fiero distillato autoctono: l’invasione dei laureati allo Iulm & affini nelle vesti di presentatori di prodotti.
Ora, non è questo il pulpito dal quale lanciare strali contro la società così concentrata sul comunicare bene da dimenticarsi il messaggio. E neppure ci caveremo gli occhi con la fibbia della cintura come Edipo nel vedere decine di dottori in marketing ridotti a inanellare vocaboli urticanti come “eccellenza”, “straordinario”, “qualità” o “premium”, quando non “ultra premium”. Di spazio ce n’è per tutti e ognuno campa e parla come vuole. Quando però il laureato in marketing dall’eloquio robotizzato incontra il giornalista di spiriti incline al rancore, il laureato in marketing è un uomo (o donna, per carità) morto.
La questione è che sarebbe buona cosa non solo leggere le informazioni e impararle a memoria, ma almeno assaggiare quel che si presenta. Averne una vaga idea. Viverlo. E invece sempre più spesso i lanci di nuove referenze di spiriti e liquori vengono affidati a giovini con gli occhi tracimanti l’orrore puro della nobildonna di fronte al fiasco, che preferirebbero parlare di balsamo per capelli ricci o di chiavi a brugola in una nuova lega metallica resistentissima. Dispersi in un mondo – quello degli alcolici e della relativa stampa specializzata – che trovano bizzarro quanto quello del Cappellaio Matto, ripetono le filastrocche che altri laureati in marketing prima di loro hanno steso in perfetto ufficiostampese, andando incontro a figure di palta.
Allo sbaraglio come reclute sulle Ardenne, si lanciano all’assalto del ridicolo cannando ogni tipo di nozione, invertendo blended e single malt, facendo confusione tra i tipi di alambicchi, semplificando oltre ogni limite e parlando per stereotipi (il gin sempre “aromatico”, il brand sempre “esclusivo”). Cosa che nella scala del fastidio si colloca appena sotto alla rottura del tappo quando si apre una bottiglia di Tignanello di Antinori.
Per cui, questo è un appello alle aziende. Se proprio dovete scegliere i vostri ambassador allo Iulm e non al bar, cosa che ci sembra poter garantire maggiori performance, almeno cambiate i test di selezione: meno manuali di story-telling e più sessioni di assaggio. Perché tutto si può perdonare a chi parla di alcolici tranne che di apparire un astemio paracadutato controvoglia sul pianeta degli spiriti.