Intervista con podcast allo specialista di brand building Chris Maffeo, che spiega come si debba ripartire bottom-up dalla singola bottiglia e dal confronto con i barman
Romano con base a Praga, ma in realtà globetrotter del mondo drinks, Chris Maffeo lavora da vent’anni nell’industria del beverage con esperienza in sei differenti Paesi e su mercati globali.
Ha iniziato come venditore nel canale horeca a Roma e poi, dopo alcuni anni in agenzie creative in Scandinavia, ha lavorato dieci anni per le più grandi multinazionali della birra – SABMiller, Asahi, Carlsberg – costruendo e posizionando i marchi premium. Da quattro anni, con la sua Maffeo Drinks, sviluppa progetti soprattutto per il segmento spirits a livello globale, dagli USA all’Europa, dal UK all’Italia.
In questa intervista a Spirito Autoctono lancia alcuni messaggi chiari per i brand che vogliano costruire una relazione di successo con la bar industry. E nell’approfondimento per il podcast (e in video) rivela alcuni “segreti” strategici per i nostri lettori.
Maffeo – che sta lanciando un corso digital (presto anche in italiano) dedicato ai piccoli produttori sulle tre fasi del brand building – studia e analizza il mondo spirits e l’universo variegato della mixology, riportando esperienze e best practice su Linkedin e con la sua newsletter (come il podcast, accessibili dal sito maffeodrinks.com. E nell’intervista propone un approfondimento con input interessanti per l’affermazione e lo sviluppo di ogni brand f&b sui mercati internazionali.
Chris, qual è il tuo punto di vista sul mondo spirits attuale a livello internazionale? Quali sono le evoluzioni più significative?
«C’è molto fermento nell’industria, molta innovazione in tutti i mercati. Vedo una corsa all’eldorado con molti brand che nascono sui trend come gin o amari. Vedo molti brand partire, ma molti non ce la fanno perché si focalizzano sul raggiungere il successo velocemente, invece che nel cercare di capire le dinamiche commerciali che rendono un brand di successo. Bisogna pensare dal basso, bottom-up».
Come sta cambiando la bar industry oggi?
«Molti bartender hanno lasciato il campo dopo il covid in cerca di lavori più diurni e regolari. Quelli che sono rimasti sono quelli che hanno una vera passione e una marcia in più. Sono ferrati e sanno cosa vogliono offrire ai clienti. I back bar si riforniscono bottom-up e non più top-down, come un tempo. Sono i bartender che chiedono determinati prodotti e non aspettano le novità dai venditori. Sono loro a dire: voglio questo brand, lo hai? Questo ha cambiato sostanzialmente il modo di lavorare tra i brand e i bar. Solo i brand che capiscono la lingua della strada, del bar, vincono».
Tu hai lanciato quest’anno il tuo The Maffeo Drinks podcast. Su quali focus hai scelto di concentrarti?
«Sul pragmatismo del costruire un brand bottom-up partendo dall’horeca. E su come scegliere i bar a cui vendere, come vendere la prima bottiglia, farla diventare una cassa e poi un pallet. Il podcast si pone al centro del Drinks Ecosystem, dato che coinvolge tutti i player – brand, distributori, bartender – e in 5 mesi ha ascoltatori in 67 paesi. Le interviste sono chiacchierate sui meccanismi di successo dei brand nei bar».
Come deve evolvere nello scenario attuale la strategia di posizionamento per i brand di spirits?
«Bisogna cambiare il punto di vista. Non partire dalla distilleria ma dal bancone del bar. “Brands are built bottom-up”, è diventato il mio motto. Il flusso avviene top-down, ma le marche si costruiscono un cocktail per volta. Altrimenti il focus è troppo sul consumatore e poco sui barman».
Qual è la vera differenza di approccio tra grandi brand e piccoli produttori oggi?
«I grandi brand hanno troppo focus sul consumatore target preso da fantomatiche ricerche di mercato che hanno perso il contatto con il mondo reale. Strategie spesso create nella torre d’avorio delle aziende. I piccoli sanno fare il lavoro sul campo. Loro lavorano più con l’horeca, ma gli manca un sistema strutturato e spesso i loro sforzi sono gocce nell’oceano. I due mondi si studiano e si ispirano ma spesso focalizzandosi sulle cose sbagliate dell’altro».
Come vedi l’evoluzione del posizionamento degli spiriti italiani?
«Avendo lanciato il brand Peroni e Nastro Azzurro in quasi tutta Europa, è un argomento a me caro. Se tralasciamo i brand storici come Campari e Martini, si può dire che Peroni e Aperol abbiano lanciato la new wave dei brand italiani all’estero negli ultimi 15 anni, focalizzandosi su occasioni di consumo chiare che partono dal tradizionale in ristoranti e bar italiani e si espandono in occasioni più moderne».
Come si posizionano all’estero? C’è una evoluzione della domanda?
«Sicuramente il mercato si è molto evoluto. Prima c’erano solo i grandi brand di vermouth e bitter, amari e grappe, ora iniziano a vedersi anche i piccoli produttori di altre categorie e brand di nicchia. Uno dei problemi che spesso vedo è che i brand italiani vedono l’estero come un eldorado e non costruiscono nei confini nazionali. Così facendo, gli stranieri quando vanno in Italia non trovano il prodotto e questo fa perdere loro credibilità, fa dubitare che sia un brand autentico. Diventa un made for export invece che un made in Italy vero. “Nemo propheta in patria”, si dice, ma in realtà per un brand sarebbe importante iniziare consolidandosi in casa propria».