Ne “la valle dei luoghi grigio-verdi” in Scozia, la distilleria del gruppo Brown-Forman Glenglassaugh, fuori da ogni rotta turistica e finora quasi ignorata. Ingiustamente
Si dice glenglassà, così sgombriamo subito il campo dalla pronuncia gaelica sempre un po’ aleatoria. E per toglierci subito un altro dente chiariamo che il nome significa “la valle dei luoghi grigio-verdi”, un inno alla fantasia post-impressionista degli abitanti di questo angolo assai remoto di Scozia, lassù a Nord Est a poche miglia da Cullen, paesino famoso per aver dato i natali alla zuppa di panna e pesce affumicato chiamata Cullen Skink, una delle 3 o 4 cose che valga davvero la pena mangiare quassù.
UNDERDOG FUORI DAI RADAR
Glenglassaugh è fuori da ogni rotta turistica, fuori dalla mappa dei brand che contano, fuori dalle brame degli appassionati, fuori insomma dal circuito classico delle visite, del marketing, dell’industria dello Scotch. Un po’ è questione geografica, non è esattamente di passaggio qui. Ma la realtà è che ci sono distillerie ancor più remote che invece un nome se lo sono costruito. Glenglassaugh no, e prima di arrivare per l’ultima tappa del nostro tour delle distillerie del gruppo Brown-Forman, nessuno ha particolari aspettative. E nessuno ha capito nulla.
Neil Strachan, l’ambassador che ci guida nella visita, ci accoglie dopo un’ora di auto dal cuore dello Speyside con delle tazze fumanti di caffè, zucchero e whisky: “La miglior maniera di svegliarsi”, sorride. Non ha torto. Così, mentre riprendiamo vigore dopo il tragitto, come sempre è tempo di sentirlo raccontare una storia.
La distilleria venne costruita dal colonnello James Moir, un imprenditore locale, nel 1875, nel periodo dell’entusiasmo generale per lo Scotch. L’edificio sorge a poche centinaia di metri da una scogliera sferzata dal vento, a metà strada fra il paesino di Portsoy e il porto di pescatori di aringhe di Sandend. Presto il figlio del colonnello deve vendere per poche sterline la distilleria ai blenders per coprire i debiti del fratello morto e nel giro di pochi anni Glenglassaugh finisce mothballed, ovvero “in naftalina” per oltre 50 anni, durante i quali diventa anche la base della Guardia nazionale, con tanto di bunker che ancora si possono vedere tra le scogliere.
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Ancora una volta, però, non era l’ora del successo per Glenglassaugh, il cui distillato era troppo intenso in termini di sapori e profumi per potersi integrare bene nei blended. Troppo carattere, troppa singolarità. Per questo i proprietari degli anni ’70 e ’80 modificano i processi produttivi, portando da chissà dove nuovi mash tun e washbacks per avvicinare lo spirito al carattere di Glenrothes. Missione fallita, il dna di Glenglassaugh era troppo duro a morire.
DAL MARE CON NOSTALGIA (E SENZA FRETTA)
Mentre passeggiamo lungo la piccola baia che si apre dietro agli ultimi edifici della distilleria, il primo pensiero va alla bellezza dei luoghi. Incastonata fra il mare e le scogliere punteggiate di arbusti di ginestrone (gorse), Glenglassaugh sorge in un angolo suggestivo che può rivaleggiare con Talisker o le distillerie di Islay.
Eppure negli ultimi anni la fama del single malt prodotto qui è sempre stata mediocre. Un po’ per scelte di marketing incomprensibili da parte dei precedenti proprietari russi (le bottiglie basse e cicciotte, le etichette discutibili), un po’ perché – si dice – per troppo tempo le botti non erano state all’altezza. Ragion per cui all’arrivo di Billy Walker nel 2013 il primo lavoro era stata la sostituzione di parecchi barili. Ad ogni modo, ora le cose sono cambiate ed è tempo di vedere come.
Ci si mette poco per accorgersi che se la qualità media è aumentata, altre cose non sono cambiate affatto. Per fortuna. Una parte degli edifici è rimasta quella tradizionale, mentre la still house dal tetto a triangoli “che ricordano le onde” è una recente discutibile innovazione. La strumentazione è totalmente a marchio Porteus, altra officina storica: il mill, il mulino che macina 4,6 tonnellate di orzo all’ora, è dotato anche di un dust extractor per togliere la polvere e un destoner per togliere i sassi, e risale al 1923; il mash tun addirittura al 1904.
Il tempo, almeno in questo, si è fermato. Tutto è manuale, tutto è ancora come una volta. I cereali, per esempio, sono spostati con viti senza fine. Andy, il production manager, non ne vuole sapere: si è sempre fatto così, si continuerà a fare così. I tubi sono di legno, il grist – l’orzo macinato – viene mosso e fatto cadere con un bastone. No rush. Non c’è fretta.
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LE CICATRICI DEL RAME
Mentre Neil ci mostra valvole e griglie di misurazione che sembrano arrivare direttamente dal secolo scorso, l’attenzione cade sul gigantesco mash tun di rame, con un’ammaccatura sopra. Durante il suo periodo di chiusura, appena prima della riapertura, una notte i vicini furono svegliati da rumori nella distilleria chiusa. Arrivarono a controllare e trovarono dei ladri di rame, che avevano iniziato a tagliare pezzi proprio dal mash tun. Furono interrotti in tempo, ma la cicatrice ancora resta.
Così come resta l’eredità di Billy Walker, che aveva salvato Glenglassaugh dal consorzio di appassionati ma poco competenti investitori olandesi e l’avrebbe voluta tenere più a lungo.
Gli washback sono 6, dei quali 4 in legno per incoraggiare la fermentazione anche spontanea, con i lieviti presenti nell’aria in grado di penetrare tra le doghe. La fermentazione è lunghissima, di 80 ore, ma non è rado che durante i weekend si protragga fino a 128 ore: «Fun is in the air», sorride Neil. I washback sono così grandi (43mila litri) che per un batch di whisky se ne utilizza solo una metà.
Whisky invecchiati per 56 anni e botti eccezionali come i cosiddetti Massandra casks
Gli alambicchi, accostati a formare una bellissima coppia, sono solo due: wash still da 17.200 litri e spirit still da 12.700. Il wash esce a 22%, il new make tra i 62 e i 71% e qui si distilla sia malto torbato sia non torbato. La capacità di produzione è intorno al milione di litri all’anno. L’unica cosa che stona è quel soffitto in metallo ondulato che segue la linea a punte – pardon, “onde” – del tetto. Ma nessuno è perfetto.
L’ultimo step è come sempre la warehouse, in cui riposano anche barili di GlenDronach e BenRiach, perché come abbiamo capito le distillerie sorelle sono un po’ come le vere sorelle, e i giocattoli finiscono un po’ ovunque, nei cassetti delle altre. Neil ci spiega che gli edifici utilizzati come cantina un tempo erano delle stalle, quindi l’intenso odore “farmy” può anche essere dovuto a un lento rilascio degli afrori animali da parte del terreno.
Qui ci sono whisky anche di 56 anni, nonché botti eccezionali come i cosiddetti Massandra casks: barili che avevano contenuto sherry prodotto e invecchiato nelle antiche cantine della Crimea. Una bottiglia del 1765 era stata aperta da Vladimir Putin in occasione di una visita ufficiale di Silvio Berlusconi. Non c’entra niente, ma aneddoto chiama aneddoto, e una volta che si entra in modalità amarcord non c’è limite.
QUALCHE ASSAGGIO
A chiudere l’intensa tre giorni di visita, Neil ci serve i tre nuovi imbottigliamenti del core range, il primo dopo il completo, necessario e ben riuscito restyling, con etichette eleganti e una bottiglia splendida che – questa sì – richiama le onde del mare. Si parte con Sandend, invecchiato in botti ex bourbon ed ex Manzanilla, il più marino degli sherry.
Un single malt sorprendente, che nonostante la gioventù stupisce per freschezza e piacevolezza: ananas, banana, ma anche melone bianco, yogurt e acqua di cocco aprono il naso. Al palato i 50 gradi si sentono, ma una bella sensazione di frutta tropicale acerba, unita alla mandorla amara e al cioccolato bianco, fanno chiedere il bis. Finale quasi salino, teso.
Il secondo whisky è il 12 anni, che invecchia in bourbon, sherry e vino rosso. Più complesso e austero rispetto al primo, ha note di cantina, albicocca secca, una vinosità marsalata e speziata. Tanto caffè tostato in bocca, con mirtilli rossi, zucchero muscovado e un guizzo acidino tra l’arancia e il vino. Godibile, più strutturato, forse meno immediato.
Dram epico:il Glenglassaugh Manager’s legacy del 1968
Il terzo esponente del core range è invece Portsoy, che prende il nome dalla cittadina in cui si trovava la smokery, l’affumicatoio delle aringhe. Ecco perché per questo whisky si utilizza il 15% di malto torbato invecchiato in botti di porto Ruby.
La torba proviene da una torbiera a 25 miglia di distanza. Al naso un fumo gentile richiama note di salmone affumicato, erbe aromatiche arrostite, una dolcezza di marmellata e un tocco balsamico. Nonché qualcosa di terroso, come di stallatico. Al palato è pimpante, fresco, forse un filo allappante: affettato di pesce affumicato, mele cotte, selvaggina al ginepro. Il tutto con un senso di succo di melograno affumicato. Davvero curioso, un finale di braci delicato e intrigante.
L’ultimo dram è epico: è il Glenglassaugh Manager’s legacy del 1968 imbottigliato nel 2010. I 42 anni di maturazione regalano una clamorosa ricchezza di papaya, mango, carta di libri antichi, potpourri. Con un tocco funkie, quasi acido. Al palato è inevitabilmente meno vibrante, anche se profondissimo: legno, tabacco, frutta tropicale matura su un mobile d’ebano antico. Il sandalo, il tè e un cioccolato infinito sono protagonisti di un finale in cui il legno si sente un filo troppo.