Tim Warrilow, co-fondatore dell’azienda: “vi spiego perché i long drink conquisteranno il mercato. E perché il G&T non morirà mai”
L’albero della febbre ormai è impossibile da abbattere. Ha radici in quasi cento mercati internazionali, cresce rigoglioso dal 2005 (+15% di valore solo negli ultimi tre anni) e da solo rappresenta il 35% del business dei cosiddetti premium mixers, che è il termine con cui i laureati in marketing definiscono le bibite gassate di qualità che versiamo nei nostri long drink.
Eppure c’è stato un periodo, neppure troppo lontano, in cui nei cocktail finivano soltanto sodati industriali, nel migliore dei casi prodotti da multinazionali, talvolta perfino robaccia da discount. Poi, sono arrivati loro, Charles Rolls e Tim Warrilow (in copertina), che si sono inventati, hanno fatto crescere e ora gestiscono un brand diventato simbolo di una rivoluzione copernicana: Fever Tree, appunto. Il marchio che per primo ha risposto a una domanda tanto banale quando geniale: se tre quarti del Gin & Tonic è rappresentato dall’acqua tonica, perché ci concentriamo solo sulla qualità del gin? Bingo. Da lì in poi è stata una cavalcata sempre più entusiasmante. Che non è ancora finita.
Abbiamo incontrato Tim sui divanetti di Casa Cipriani a Milano. Entusiasta (noi un po’ meno…) per il caldo del centoquarantaseiesimo giorno d’estate, con gli occhi blu color-etichetta-della-Fever-Tree-Mediterranea, ci ha raccontato un po’ la sua storia imprenditoriale, che come spesso succede si interseca con la storia dei consumi e della società.
Partiamo da lontano, ovvero dall’inizio. Com’è nata l’idea?
«Per caso! Io volevo buttarmi nel gin…»
E ti sei buttato nel bicchiere sbagliato?
«Diciamo più che altro che ho fatto l’incontro giusto. Dopo l’università e i primi passi nel mondo della pubblicità, l’anima imprenditoriale che ho ereditato da mio padre cercava di emergere. Tra i tanti progetti nell’ambito beverage, mi ero concentrato sul gin. Per questo mi era stato consigliato da tutti di rivolgermi a Charles Rolls, che aveva appena rilanciato il Plymouth gin. L’ho chiamato, ci siamo visti, e alla fine della prima tazza di caffè entrambi stavamo parlando solo della tonica».
E cosa vi siete detti?
«Ci sembrava incredibile come – in un momento di grande curiosità attorno al mondo della mixology e del bartending – tutti fossero ossessionati dal gin e nessuno si curasse dell’acqua tonica. Che, per inciso, rappresenta il 75% del drink. Tante energie spese per l’educazione del palato sui superalcolici e zero sul resto».
Forse perché nessuno pensava di associare qualità e prezzi più alti a un prodotto “di accompagnamento” come i sodati?
«Esatto. Gli addetti al settore ai quali nei primi tempi spiegavamo il nostro progetto ci guardavano come dei pazzi: come pensate di convincere i consumatori?, ci chiedevano. D’altronde il settore era ridotto malissimo».
Com’erano le toniche nell’epoca «aFT», ovvero Avanti Fever Tree?
«Partiamo da un’orgogliosa considerazione: il Gin & Tonic è la bevanda più british del mondo, l’abbiamo inventata noi negli anni Venti dell’Ottocento, è un fiore all’occhiello. Solo che era totalmente appassito. Veniva servito in bicchieri tristi, con ghiaccio che si scioglieva subito, con gin che – se eri fortunato – era al massimo Gordon’s, con fettine di limone rinsecchite e acqua tonica industriale…».
…che era così terribile?
«Alcune sì, altre erano solo… standard! Senza fare nomi (Schweppes, ndr), il mercato era saturato da un paio di colossi multinazionali (CocaCola, ndr bis) e semplicemente nessuno pensava che si potesse osare scalfire quel monopolio. Che, tangenzialmente, assicura ai retailer margini bassissimi e zero spazio di contrattazione. Oltre al fatto che i prodotti industriali contengono conservanti, saccarina, aromi artificiali…».
Uno scenario tra il desolante e il monocorde.
«Una tragedia. L’intero comparto dei mixers era avvolto dal disinteresse, economicamente in lento declino, il classico dark side of the Moon, la metà dimenticata del beverage. Durante uno dei panel che tenevamo in fase di definizione del prodotto, una donna disse la cosa più illuminante: i sodati sono noiosi, non c’è scelta, nemmeno si sa quali siano gli ingredienti. È stato come squarciare un velo: avevamo chiara la missione. Non ci sognavamo di competere con Schweppes, anche se poi addirittura l’abbiamo superata in Gran Bretagna, ma volevamo offrire una opzione di qualità, qualcosa di diverso».
Primo step: il packaging.
«No, non il primo, ma di sicuro ha influito. Non solo per questioni di comunicazione. La miglior maniera per rovinare un G&T è servirlo con toniche poco gassate, cosa che succede spesso con le bottiglie di plastica. E dunque abbiamo puntato su bottigliette di vetro, che non solo garantiscono un’effervescenza piacevole ma sono pure più riciclabili».
E quindi una volta scelta la bottiglia, siete partiti?
«Per niente. Ci abbiamo messo 18 mesi di investimenti, ricerche sui libri per reperire le ricette tradizionali e viaggi in giro per il mondo per trovare le botaniche migliori. E poi, come spesso succede, mentre passavamo di bar in hotel in ristorante per spiegare il nostro concept, sono successe due cose».
Suona già come la svolta in un film…
«Precisamente. Due aneddoti da film. Il primo è capitato su un treno, sul quale viaggiava una responsabile acquisti della più rinomata catena di supermercati inglese. Annoiata, aveva iniziato a svogliare una copia del Times dimenticata sul sedile. Era rimasta incuriosita da un trafiletto su questa nuova Fever Tree, e così, come un colpo di fulmine, ci ha contattati. Così siamo finiti sugli scaffali di Waitrose, fra cioccolati e caffè di lusso».
E il secondo colpo di scena?
«Ancor più surreale. Richard Hamilton, uno dei più grandi artisti inglesi, recentemente scomparso, aveva ricevuto a casa un giornalista per un’intervista. Dopo avergli servito un Gin & Tonic, al momento dei saluti il cronista gli aveva raccontato che il suo prossimo servizio sarebbe stato un’intervista al grande chef Ferran Adrià. Hamilton aveva colto la palla al balzo e gli aveva chiesto un favore: di portargli e fargli assaggiare una nuova acqua tonica inglese… Deve essergli piaciuta, perché poi ci ha invitati al suo El Bulli, dove Fever Tree è perfino entrata nel menu: quattordicesima portata della degustazione, sottoforma di granita».
Scaffali del supermarket e amata dal miglior chef del mondo. L’alfa e l’omega…
«Waitrose ci ha fatto conoscere al pubblico; Adrià, che a quei tempi era un semidio in Spagna, ci ha fatti conoscere tra i suoi colleghi, fra i gourmand, fra i bartender che iniziavano a guardare con curiosità a questi cuochi spagnoli che a fine cena giravano fra i tavoli dei clienti sorseggiando G&T da bicchieri a balloon, in un rito di condivisione e convivialità del tutto nuovo».
Il cosiddetto “Rinascimento del Gin & Tonic”.
«Che è stato trainato da gin di nuova concezione, come l’Hendricks ad esempio, ma nel nostro piccolo anche da toniche altrettanto innovative e rivoluzionarie. Aumentando la qualità di entrambe le sue anime, un long drink terribilmente demodè si è trasfigurato. Nel balloon, con distillati e sodati premium, è diventato un altro tipo di esperienza. E per qualcosa del genere i clienti ora erano disposti a spendere di più».
Ci si aspettava che fosse una bolla, che sarebbe passato di moda presto.
«Invece è ancora sulla cresta dell’onda e ci resterà. Perché dalla qualità non si torna indietro. I consumatori li puoi fregare, ma solo per poco tempo. Si accorgono se dietro al marketing non c’è sostanza. E nel G&T, che è un capolavoro di equilibrio dolce/amaro impreziosito dalla frizzantezza, di sostanza ce n’è. Ancor di più ora che siamo entrati nell’era dell’abbinamento con il cibo».
Parliamo delle botaniche. Arrivano dai luoghi più disparati, non temete che tra inflazione e crisi geopolitiche ci possano essere problemi?
(Ride) «Ma speriamo proprio di no! L’idea originale che ancora resiste è scegliere il top e non abbassare il livello. Per esempio, avevo letto che le migliori piantagioni di albero del chinino – l’albero della febbre che dà il nome al marchio e costituisce il nucleo di quel che facciamo – si trovano nella Repubblica Democratica del Congo. E dunque sono andato di persona a contrattare con i fornitori, tra blocchi stradali armati e ragazzini armati di lanciarazzi. Ce l’abbiamo fatta e sono ancora i nostri fornitori oggi. Una collaborazione che ha anche aiutato la comunità, perché l’altro pilastro della nostra filosofia è pagare il giusto prezzo per le materie prime. Siano esse chinino congolese, zenzero indiano, lime messicano o limoni dell’Etna».
La grande varietà di ingredienti porta a un’altra domanda: come nasce la grande gamma di Fever Tree, che da poco si è arricchita di una cola, di sodati all’arancia rossa e al lime, di una tonica al mandarino e di una al lampone e rabarbaro?
«Sempre da quell’idea di offrire diversi sapori e colori con cui divertirsi ed entusiasmarsi. Ci siamo accorti che il boom del gin aveva portato a un’infinità di gin meno incentrati sul puro ginepro, con stili variopinti differenti dal classico London Dry. Allora ci siamo detti che servivano anche toniche pensate per essere abbinate a gin floreali, speziati, fruttati, e così via. Sono nate la Lemon Tonic, quella ai fiori di sambuco e soprattutto la Mediterranean…».
Che in Italia va forte.
«Un successo incredibile. Gli ultimi dati di consumo ci dicono che ha quasi raggiunto la classica Indian Tonic, ci sono locali che addirittura la usano per i G&T base, ci sono clienti che la chiedono espressamente. Già nel 2005 era impensabile che qualcuno chiedesse un gin particolare, figuriamoci una tonica!».
Rimaniamo in Italia: che idea si è fatto del mercato?
«Siete il perfetto esempio del less is better. Da inglese, invidio la vostra capacità di fermarvi dopo un paio di drink. Ma il fatto che siate una nazione di bevitori di vino, quindi abituati a parlare di terroir, zone di produzione e dettagli, vi fa molto ricettivi alla rivoluzione della qualità: volete sapere cosa state bevendo, anche per quanto riguarda i sodati».
Che non sono solo le toniche. Del G&T abbiamo parlato, e sappiamo che è come il domani per James Bond: non muore mai. Ma quali saranno i prossimi long drink a vivere un boom?
«Potrei rispondere: tutti. Ma c’è un motivo. La maggior attenzione alla salute e la possibilità di avere sodati di qualità, meno addizionati di zuccheri e senza compromessi, ha spinto il consumo di long drink, rinfrescanti e leggeri. Ovvio che tutti ora vogliano spingere, soprattutto approfittando della stagnazione del settore vino, percepito come complicato, e della birra, in calo per ragioni diciamo dietetiche».
Più long e più light?
«Precisamente, e noi siamo nella situazione perfetta, anche se ormai sono un centinaio i marchi che sono nati nella scia della nostra intuizione. Abbiamo avuto richieste di collaborazione da marchi di single malt Scotch, Irish whiskey, bourbon, rum, vodka, tequila, ma perfino aperitivi e vermut. Per esempio, abbiamo creato la Fever Tree al pompelmo rosa specificamente per il Paloma cocktail. E stiamo lavorando benissimo con Ginger Ale e Ginger Beer, che hanno vissuto un boom con il Moskow Mule e sono perfetti con whisky e perfino col cognac (l’Horse’s neck, ndr)».
Chiudo con una provocazione. Il vostro importatore italiano, Luca Gargano di Velier, con cui collaborate da 16 anni, ha fatto delle “Triple A”, ovvero artisti, agricoltori e artigiani, una bandiera. Fever Tree è nata come inno all’artigianalità, ma ora è quotata allo Stock Exchange di Londra, le sue azioni sono state vendute per quasi 30 milioni di sterline, ha vinto svariati premi per il brand dalla maggior crescita: ha ancora senso parlare di artigianalità per la vostra realtà?
«Sempre. Perché facciamo acqua tonica esattamente come la prima volta, non abbiamo mai cambiato materie prime, né abbassato di un millimetro lo standard. Esattamente come le grandi case di moda italiane, che curano ancora ogni singolo dettaglio nonostante siano diventate big mondiali».