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Mojito: così la medicina dei pirati è diventata un simbolo (anche di una crisi di governo)

Fosse ancora tra noi quell’alambicco vivente di parole ed energia che rispondeva al nome di Gianni Minà, avrebbe potuto iniziare questo articolo così: “Eravamo io, sir Francis Drake, Ernest Hemingway e Matteo Salvini…”. E sarebbe stato un incipit perfetto per dare l’idea della surreale e iridescente parabola di uno dei cocktail più consumati al mondo, il Mojito.

Perché quel drink che a prima vista, se preparato da mani incerte, assomiglia a un pitale ghiacciato pieno di insalata mista, in realtà è una colonna della mixology, e come tanti altri cocktail storici ha natali incerti ma una storia certamente affascinante.

Tutto inizia con i pirati, che come abbiamo ormai capito con il rum e i suoi aneddoti c’entrano sempre. Era il 1586 quando i gentiluomini inglesi guidati da sir Francis Drake arrivarono all’Avana per depredare da par loro la città e l’isola di Cuba. Se ne andarono poco dopo, senza bottino ma con una conquista ben più duratura: la ricetta di un tonico suggerito dagli indios e dagli schiavi africani ribelli al cugino di Drake, Richard. Il quale, per curare lo scorbuto e le altre fantastiche malattie che colpivano l’equipaggio privo di vitamine, iniziò a somministrarlo a destra e a manca, per la gioia della ciurma. Fu così che il mix di succo di lime, acqua, zucchero, hierbabuena (il mentastro verde) e aguardiente di canna da un lato salvò i pirati, dando anche loro il coraggio necessario agli arrembaggi, e dall’altro diventò famoso come El Draque o The Drake. Tanto che nel 1833 lo scrittore Ramòn de Paula scriveva che: “Ogni mattina alle 11 in punto mi faccio un piccolo Drake. E va benissimo”. Ah, i rimedi farmacologici, quelli belli…



Il grande salto da intruglio vitaminico e corroborante a vero e proprio cocktail avviene nella seconda metà dell’Ottocento, quando la neonata Bacardi inizia a proporre e spingere il rum bianco cubano al posto dell’aguardiente. Il drink si diffonde pian piano a Cuba, entrando a far parte della sacra trinità della mixology locale, insieme a Daiquiri e Cuba Libre. Eppure, per incontrare per la prima volta il nome “Mojito” bisogna aspettare il menu dello Sloppy Joe’s bar, nel 1931-32. Il cocktail era già presente su altre liste di locali e libri di ricette, ma come “Mojo criollo”, “Cuban mojo” o “Mojo de ron”, il che introduce un altro tema: qual è l’etimologia del nome?

Da dove nasce il nome “Mojito”?

Sono tre le ipotesi più accreditate. La prima fa derivare il nome dalla salsa cubana “mojo” a base di succo di limone e aglio, fortunatamente eliminato dalla ricetta del cocktail… La seconda ha a che fare con il verbo spagnolo mojar (bagnare). La terza, la più suggestiva ma anche la meno credibile, tira invece in ballo il voodoo, e in particolare il mojo, un concetto un po’ ibrido tra l’incantesimo, l’amuleto e la preghiera di ringraziamento, ereditato dalla cultura Yoruba degli schiavi africani giunti nelle piantagioni.

Spiegato – con quell’insondabile indeterminatezza che avvolge ogni cosa nei Caraibi – il nome, occorre spiegare la fortuna del Mojito nel Novecento. Il primo passo è il grande successo del drink presso il pubblico americano, che arrivava a Cuba durante il Proibizionismo e tornava negli States con questo ricordo celestiale dei drink a base menta, particolarmente piacevole a un palato come quello americano, abituato al Mint Julep degli Stati del Sud. Il secondo passo, sempre made in USA, è invece dato dalla barba, dalla penna e dal fegato sconfinato di Hernest Hemingway.



Il romanziere avventuriero con un debole per le smargiassate e le bevute ciclopiche, infatti, è stato il più rinomato fan del Mojito, tanto che nella Bodeguita del Medio dell’Habana Vieja, spicca una targa con una sua citazione: “My Mojito in La Bodeguita, my Daiquiri in El Floridita”. Peccato che nell’intera opera di Hemingway non se ne trovi traccia. Ma come spesso dicono i giornalisti: perché rovinare una bella storia con una triste realtà?

Fatto sta che il Mojito preparato nel bar di Attilio de la Fuente e poi del mitico Angel Martinez diventa celebre quasi quanto l’autore di Per chi suona la campana e di Fiesta, assurgendo a simbolo di un mondo esotico fatto di piaceri alcolici e sensuali e contrapposto al dramma della guerra e alla noia della vita borghese durante il boom.

Mojito, ascesa e declino

Come tutte le mode, inevitabilmente, anche il Mojito ha vissuto un periodo di down. Tanti sono i prodotti sul mercato, non così tanti i bevitori, e dunque l’industria ha tutto l’interesse nel proporre sogni liquidi differenti ai soliti animali da bancone. Così, come un fiume carsico alcolico, il Mojito è declinato tra gli anni ’60 e ’80 per ricomparire nei magici Novanta, sull’onda del trend Nuevo latino nell’enogastronomia statunitense. Onda che diventando tsunami ha investito il mondo, Italia compresa, facendo diventare il nostro affezionato pestato il cocktail più consumato del globo nel 2013.



Il vertice raggiunto nella quantità ha però coinciso con un abisso nella qualità. Ovviamente, la popolarizzazione reca con sé il rischio di una banalizzazione e di una standardizzazione al ribasso. Stiamo parlando degli anni che ricordiamo tutti, gli anni bui dei secchielli di Mojito ordinati in discoteca o in spiaggia al ritmo della musica dance. Gli anni delle zuppiere piene di granita alla menta che profumavano di Nelsen piatti e venivano preparate da nerboruti barman strappati al tornio, intenti a massacrare agrumi e foglie di menta con pestelli branditi come magli. Altro che Medioevo, la vera epoca oscura è stata questa.



Un’epoca in cui il Mojito si è guadagnato un posto al sole nella cultura di massa, tra cinema e musica, sport e politica, alti e bassi. È finito sorseggiato da James Bond (Pierce Brosnan alle prese con una straordinaria Halle Berry in bikini color albicocca) nel film Die another day; ha dato il titolo alla canzone Mojito Football Club dei Bandabardò; ha avuto le sue varianti come il Mojitaly, con Fernet al posto del rum; è ormai un aroma diffuso per gomme da masticare, e-cig, maschere di bellezza e perfino lubrificanti sessuali; e soprattutto è stato responsabile di una crisi di governo.

Era il 3 agosto del 2019 e l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini, in vacanza a Milano Marittima, si concedeva una giornata di relax. Al “Papeete beach”, tra cubiste diversamente coperte e l’inno di Mameli in versione trance-deep-house, il leader leghista decise di strappare con gli alleati grillini, aprendo di fatto la crisi di governo e la caduta del Conte I. Ora, i fattori politici erano tanti, dalle timidezze dei 5 Stelle sulla Tav ai sondaggi che davano la Lega a percentuali stellari. Ma in tanti, ancora oggi, sono convinti che a innescare quelle parole siano stati i Mojito. 



Come si prepara il Mojito?

Resta un ultimo tema da affrontare, ovvero come si fa questo benedetto, intercontinentale ed interdisciplinare long drink? Oggi che l’attenzione ai particolari tecnici e alla materia prima è altissima e che la cura nella preparazione è finalmente irrinunciabile anche per questi cocktail più “facili”, alcuni comandamenti sono irrinunciabili. Il lime deve essere fresco, massaggiato e appena tagliato e spremuto. Il ghiaccio deve essere intero e non tritato. Il rum deve essere di qualità, possibilmente mediamente aromatico, con una nota di canna spiccata (qui i nostri consigli di lettura in occasione del World Rum Day dello scorso 8 luglio). La menta non deve essere rotta ma solo schiacciata, così da sprigionare gli olii essenziali ma non le note amare ed erbacee. La soda deve essere fredda per ritardare la diluizione.

Resta un ultimo comandamento, più di buonsenso che altro: se dovete rilasciare dichiarazioni alla stampa e siete titolari di un dicastero della Repubblica, bevetelo dopo la conferenza stampa…

(A proposito di rum, leggete anche il volume 1 e il volume 2 dell’approfondimento di Marco Zucchetti dedicato alla storia e alle curiosità del distillato più anarchico)

Classe 1982, è cresciuto a Cremona ma a Milano è nato, si è laureato, vive e lavora come giornalista: in sostanza, è fieramente milanese fin nel midollo. Proprio come il risotto. Quando non si occupa di cose più serie ma più noiose, scrive di distillati: ha collaborato con scotchwhisky.com, fa parte della squadra di whiskyfacile.com e tiene la rubrica settimanale “Gente di Spirito” sul Giornale, di cui è vicedirettore dal 2017. Forse in gioventù ha letto troppo, e così si è convinto che solo gli alambicchi non mentano mai e che da lì esca la vera anima degli esseri umani.

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