Critica, moda, eccessi dell’improvvisazione. Davvero gli addetti ai lavori hanno una responsabilità così grande? Parliamone, siamo ancora in tempo
«…Perseverare autem diabolicum. Certo che ne abbiamo fatto casini, noi giornalisti del mondo food. Negli ultimi 15 anni ci siamo impegnati a portare alla ribalta persone trasformandole in personaggi del settore, creando bramosia, rivalità, talvolta ossessione»
Lorenza Fumelli, ex Direttore di Agrodolce, penna arguta quanto sferzante e gustosa, venerdì scorso, apre così su “The FoodZilla” seguitissimo nuovo progetto editoriale della giornalista e critica gastronomica.
«Non ci è bastato intervenire nel mondo della cucina e dell’alta cucina a gamba tesa, scrivendo articoli (cosa che faccio ancora con grande piacere), osannando cuochi, creando classifiche dal potere così paranormale da ammaliare ogni chef con un pizzico di ambizione, costringendoli ogni notte a sognare di farne parte o a dimenticare gli investimenti fatti per riuscirci – continua il Direttore – No. Talmente tanto non ci bastava che abbiamo deciso di farlo anche con il mondo del BAR».
Perseverare negli errori
Spunto interessante: davvero gli addetti ai lavori hanno – abbiamo – una responsabilità così grande? Sì, spassionatamente e, senza remore a scriverlo, sì. Tutto vero, unica imprecisione nel punto del Direttore Fumelli, più che altro una dimenticanza, ovvero, prima di passare con il caterpillar autografo sui bar – “questa mano po esse piuma e po esse fero…” – ci siamo impegnati, parecchio, anche con le pizzerie. Per il resto, il titolo di The FoodZilla, non fa un piega.
Questa volta siamo preparati. Quanto meno, già sappiamo che la funesta attenzione mediatica si è spostata su una nuova inconsapevole vittima: il bar. Il cocktail bar anzi. Il parente buio, modaiolo e tatuato della caffetteria.
Dal bar al bartender, cambiano i tempi
Certo altri tempi, altre modalità, altro timing. Cucina e vino sono – erano! – più snob, la loro bolla ha iniziato a gonfiarsi in tempo di Blackberry, Facebook non era ancora un fiume in piena e l’influencer era solo il risultato di un eccesso di aria condizionata. Più difficile entrare nel giro che contava, i professionisti c’erano, le grandi penne si differenziavano e i critici enogastronomici avevano credibilità. I veri professionisti li distinguevi dai fake. Subito. Tre domande ben piazzate e alla prima risposta il “tarteneuse” di turno era nudo e il bambino già gridava con l’indice accusatore.
Ecco che, aggiungendo qua e là termini per lo più ad canis penem come texture, croccantezze, gioco di consistenze e fermentazione – una fermentazione non si nega a nessuno -, da tutti CT della Nazionale, siamo diventati tutti CBT – cotti a bassa temperatura -, critici gastronomici e per oltre 15 anni. Risultato? La Nazionale non vince neanche quando gioca da sola, la ristorazione così detta d’autore non è più sostenibile – economicamente! – e la pizza è diventato un disco di pasta da coprire con creme, arie e qualsiasi altra menata che giustifichi un prezzo medio di 18 euro, quando va bene.
Il nuovo fenomeno è la mixology
Adesso l’attenzione sulla cucina si è sgonfiata come un soufflé di cioccolato tolto dal forno troppo presto. I grandi chef continuano a sperimentare, creare, manipolare, fermentare, ma solo nelle cantine di casa loro.
Le grandi catene alberghiere che li finanziano hanno chiuso i rubinetti, e i cuochi fuori dalla cerchia alberghiera, se li sono chiusi da soli. Almeno quelli che hanno fatto in tempo, prima di affogare rovinosamente. Tutto ad un tratto il grido di battaglia è diventato “che gli chef tornino a cucinare per Dio. Ci vuole sostanza e concretezza!“. Ma come? Sino a ieri sera, se non si evinceva l’effetto wow in un piatto, se non si trovava l’unicorno nella creazione e se non si scucchiaiava plancton come le balene d’inverno, lo chef finiva in “sesta” – gergo giornalistico per definire le pagine meno lette, insomma, in slang la culonia – e invece questa mattina, ci siamo svegliati tutti sostenitori del nuovo pensiero gastronomico assoluto: coda alla vaccinara is the new black.
Si ma il bar?
Immaginando cosa state pensando “che esagerato, ma non è così“. Bene, direi semplice da confutare, basta andare a spulciare i feed social pre-covid e quelli post covid del micro mondo più autoreferenziale della terra, e vedere com’è cambiato il menù della proposta gastronomica virtuale.
Si ma il bar? E il bar replica con il bartender. Il bar è un campo benaltramente – per citare Cetto La Qualunque – diverso, è aperto, solo apparentemente più sbottonato, più contemporaneo. Agli occhi degli sprovveduti, ovviamente. Quelli che conoscono solo metà della storia.
E allora via a un nuovo giro e a una nuova corsa: imponenti orde di bartender, nuovi esperti, comunicatori, consulenti dalle ignote consulenze, influencer, financo nuove realtà professionali tipo gli Spirits Success Specialist, si buttano a capofitto nel piatto ricco mi ci ficco. Non importa la preparazione, la conoscenza, l’esperienza. Bisogna esserci. Ed è più facile esserci. Il nuovo circus gira talmente veloce e incalzante che tra guest shift – si chiamano così quelli che un tempo era i “quattro mani” -, una cocktail week, un gin fest, un pairing imperdibile e la presentazione della drink list del giorno, tutti riescono ad incassare il proprio quarto d’ora di celebrità. Un selfie, una instagrammata, una vomitata al Roma Bar Show, non si negano proprio a nessuno. Anche Famiglia Cristiana ha una rubrica dedicata alla miscelazione, “per DIO che drink!”
Liste, classifiche e guide sono buoni consiglieri?
«È tutto diverso dalla cucina. Nel bar l’artigiano-artista-creatore – chiamatelo come volete – è davanti a te, al bancone. Ti guarda negli occhi, ti parla, ascolta, racconta. È un rapporto molto intimo: di mezzo c’è l’alcol, che di fatto è un veleno. C’è una linea sottile di piacere, attenzione e sostegno», insiste il Direttore Fumelli. «Il Podcast di oggi parla di come in questi ultimi anni sia venuta meno la relazione tra i bartender e i clienti a favore della ricerca del successo, dell’attenzione dei colleghi, dell’ostentazione di tecnica e concetto. In due parole: dell’autoreferenzialità di un settore che faceva dell’hospitality il suo punto di forza. E sempre per colpa nostra. Della nostra attenzione, delle liste iper esclusive, del valore dei like sotto ai post di Instagram».
È tutto diverso. Anzi no. A guardare bene è tutto uguale, cambiano pubblico – non tutto – e alcune comparse, ma la trama del film è la stessa. In alcuni casi anche i frame sono i medesimi. Pre-fenomeno: barman, barlady, contatto, chiacchiere, bellissime bevute tra una confidenza a Coso – e mica si conosceva il nome del barman -, due commenti sessisti – da entrambe le parti eh! -, due spiegazioni sul Negroni, Martini da farti dimenticare l’indirizzo di casa.
E poi arriva il gin
Poi è arrivata la prima testuggine di sfondamento, il gin. Con lui soldi, investimenti, attenzioni. E come le api sul miele, orfani di quel “Qualcosa di cui… sparlare”, ovvero di quella cucina ormai tanto in debito di creatività e di spunti che deve sfornare toast gourmet per stimolare il minimo interesse social, ecco le invasioni barbariche a suggerire, pompare, creare, presenziare e instagrammare.
Aridaje, direbbero gli amici all’ombra del Colosseo. Intanto via i titoli polverosi, forza un pò: barman non va bene, bartender è più trendy. Basta Martini. Vai di arie, schiume e fermentazioni. Togli Negroni, è vecchio! Meglio “Rosso Tramonto al profumo di vino liquoroso e vibrazioni di bitter”. Via il bartender dal bancone. Spazio alla bottigliera: prima, seconda, terza fila Campari. Se resta spazio, Aperol. E quest’ultima è la novità più intelligente, almeno dal punto di vista economico, le grandi major portano soldi, sponsorizzazioni e luci della ribalta concrete e funzionali. Se si è accorti, ovviamente.
«Scusi, posso avere un Vesper?» «No, però le posso proporre il mio Vento di ginepro, soffio di Russia e succo d’uva liquoroso!» risponde il bartender – ndr: questa lo so, la capiranno in pochi – E quel bel bancone di cui parla Lorenza? No, mica siamo al bar, questo è un locale inserito nella 50 Best, mica cazzi. Così borbotta in lontananza il barbuto e bretellato omone che armeggia con le pipette, dietro un profluvio di erbe, erbette, profumi vari, flaconi e vasi farmaceutici. E via di selfie, foto al drink, alle bretelle e alla barba. Ancora una volta, tutto diventa una quinta teatrale. Tanta fuffa, poca sostanza. Zero ricerca, se non quella dell’effetto wow. Quella cosa aberrante che ha riempito bocca e post dei social-gastronomi negli ultimi quindici anni.
Il musetto CBT, diventa il pre-batch dei bartender moderni
Fatto salvo per l’ovvia sostituzione del “musetto cotto a bassa temperatura con le sue trippe” di Longino e Cardenal con il più aderente ai bartender pre-batch, tutto è rimasto immutato. Orto botanico, pinzette e ingessatura compresi. E se chiedi un Gin&Tonic, sei fottuto!
C’è salvezza? Sì. E la cima di salvataggio, arriva proprio dall’intuizione – alle quali, bisogna riconoscerlo, non è nuova! – di Lorenza Fumelli, quella di accogliere nel suo podcast -sotto il link per ascoltarlo – Leonardo Leuci, fondatore di uno dei più importanti locali del mondo, il Jerry Thomas Project di Roma. Lui aveva qualcosa da dire. Noi avevamo qualcosa da ascoltare. E qualcosa di nuovo di cui sparlare.
Brava Direttore Fumelli e grazie Leonardo Leuci. Nell’ultimo periodo, ho creduto di essere Bill Murray in Ricomincio da capo! FBF
Ascolta “Storie di fuffa e autoreferenzialità nel mondo del BAR, con Leonardo Leuci” su Spreaker.