Bill Lumsden firma una nuova release della serie “A tale of…” della distilleria scozzese di Lvmh. Se lo storytelling lascia qualche dubbio, la competenza tecnica riserva sorprese
Quando si sperimenta e si innova, la linea che separa la genialità dalla boiata fine a se stessa è sottile, ma non è rossa come nel film di Terence Malick. Al contrario, è un confine invisibile, spesso travisato dalle mode del momento e dalle aspettative del pubblico. Un crinale che si muove nel tempo, sicché quel che oggi viene salutato come una trovata ingegnosa, in capo a qualche mese scivola nell’oblio come una trascurabile boutade di cui nessuno sentirà la mancanza. Succede nella moda, nella letteratura, nell’arte, figuriamoci se non succede nella gastronomia o nel mondo del beverage, dove l’esagerazione è un paradigma tanto quanto la tradizione.
L’abbiamo presa larga, ma quando capita di assaggiare in anteprima alcuni prodotti in edizione limitata particolarmente bizzarri, questo discorso emerge dal bicchiere come gli esteri da un rum giamaicano. Rum che in questo caso non c’entra nulla, perché il destro per riflettere sul senso, il fascino e i pericoli dell’innovazione nei distillati stavolta ce lo dà il lancio di un whisky, il nuovo Glenmorangie “A tale of the forest”. In occasione del quale LVMH – proprietaria del marchio – ha organizzato una bucolica gita fuori Milano, nella tenuta di caccia Il Leprone di Cerro Maggiore, per un pranzo in pairing. Il Dogui, il mitico “cumenda”, avrebbe commentato: sole, caldarroste, whisky… e sei in pole position.
Archiviamo per un attimo l’edonismo puro che coglierebbe chiunque si trovasse a mezzogiorno a mangiare fichi avvolti nella pancetta arrosto accompagnati da uno Scotch & soda, e facciamo una premessa. Glenmorangie è una delle distillerie storiche delle Highlands scozzesi. Fondata nel 1843, produce un single malt particolarmente elegante e leggero, grazie anche agli alambicchi, i più alti e affusolati di Scozia (più sono alti, più lo spirito che ne sgorga è delicato). Parallelamente a questa solida nomea basata su quel che gli inglesi chiamerebbero “consistency” e che si può tradurre con “qualità costante”, da qualche anno Glenmorangie rilascia anche imbottigliamenti annuali, più o meno da collezione e più o meno limitati, che esplorano le infinite possibilità produttive e di affinamento del whisky, con profili i più diversi fra loro. Insomma, il caro, vecchio Scotch ogni tanto si veste da giovane.
Chi di volta in volta cuce su misura i vestiti nuovi al whisky è Bill Lumsden, l’eterno inventore, l’uomo che dirige la distillazione a Glenmorangie e ad Ardbeg, l’altra distilleria di proprietà LVMH. È lui, biochimico di mestiere, che ha provato a usare lieviti autoctoni (Glenmorangie Allta), che ha sperimentato gli affinamenti in barili ex whiskey di segale (Glenmorangie Spios), che ha messo due barili a maturare sotto la torba (Ardbeg Fon Fhòid) e che ha mandato un sample nello spazio… E che nel 2020 ha lanciato la serie di Glenmorangie “A tale of…”, racconti liquidi, narrazioni sensoriali che riproducono in un olfatto e in un palato un’idea, una situazione, un ricordo. Psichedelico? Non tanto.
Il primo era stato “A tale of cake”, che grazie al finish in botti ex Tokaji ungherese ricordava la sensazione di una tortina di cioccolato; poi, nel 2021, “A tale of winter”, con i barili ex Marsala a regalare memorie di feste natalizie, vin brulè e tombola. Quest’anno, è tempo di “A tale of the forest”, che nella mente visionaria di Lumsden è la trasposizione in un dram di una passeggiata in un bosco scozzese. Solo che – ed ecco che torna il nostro discorso sull’innovazione – stavolta la sperimentazione non avviene a valle, ossia nell’ultima maturazione, bensì a monte, nella fase addirittura di essiccazione del malto.
A spiegarlo tecnicamente è Flavia Di Giustino, che fra uno gnocco di zucca e un carpaccio ai porcini, mentre i giornalisti sorseggiano un highball al pino mugo, presenta l’ultimo arrivato della famiglia Glenmorangie. In breve, l’orzo maltato prima di essere macinato deve essere essiccato in un forno, detto kiln. Per farlo, in Scozia si utilizzava torba – l’unico combustibile presente nelle Highlands – e poi, dopo la rivoluzione industriale, aria calda. Ecco, in questo caso, oltre a una piccola porzione di torba non specificata, si buttano a bruciare nel kiln anche botaniche locali: aghi di pino, cortecce di betulle, menta, erica, prezzemolo e ginepro. Un metodo ancestrale, così si racconta, che ovviamente ha un impatto sul distillato, solitamente biscottoso e pulitissimo.
Infatti il whisky ottenuto è davvero diverso da qualsiasi altro Glenmorangie. Intanto, è delicatamente ma evidentemente affumicato, il che moltiplica la complessità generale. Inoltre, le note balsamiche e verdi rimbalzano sia all’olfatto, sia al primo palato, giocando tra la freschezza e un’interessante sensazione terrosa, umida, più di sottobosco che di bosco. Il che lo rende assai gastronomico e versatile, nonostante l’invecchiamento (non dichiarato) non sembri eccessivo. Eppure, la giovinezza ci sta bene, aumenta il nervo della beva, lo rende agile, scattante, imperfetto eppure divertente. Bene con la soda, bene anche se un filo sovrastato dal sour proposto in abbinamento con il tortello alla lepre, così così nel drink a base di succo di mirtillo che accompagnava il controfiletto di cervo (che al contrario era esaltato dal dram liscio) e infine eccezionale in un Hot Toddy con tanto di caldarroste, plaid, baci, abbracci e felicitazioni.
Rimane da spiegare il motivo per cui ce ne andiamo dal boschetto della fantasia di Glenmorangie rimuginando sull’innovazione, come dicevamo. Semplicemente, l’idea è che per saper innovare con criterio e intelligenza occorra il triplo dell’accortezza. Cosa che per Glenmorangie “A tale of the forest” è evidente in ogni fase. Il rischio di creare un’improbabile chimera, un “gisky” in cui il ginepro e il malto andassero in conflitto come Totti e Ilary, era alto. Magari non come “Fishky”, l’abominio insuperato di whisky invecchiato in barili di aringhe, ma insomma…
Eppure non è accaduto, perché dietro all’idea del prodotto qui c’è una competenza tecnica totale, c’è conoscenza, c’è misura e visione. Visione del passato, dei sentori che si vogliono raggiungere e soprattutto visione della sottile linea rossa che separa la facile sperimentazione portata avanti solo per “épater le bourgeois” e stimolare curiosità morbosa e la vera sperimentazione. Cioè quella che rispetta le tradizioni e alza pian piano l’asticella e che è alla base dell’evoluzione del gusto.
Se Darwin non si fosse fissato solo sui fringuelli delle Galapagos, un paio di dram alla salute del dr. Lumsden se li sarebbe fatti. (MZ)