Originale, complesso, fantasioso. Lo chef presenta il suo compound gin, realizzato con 19 botaniche assieme a The Spiritual Machine
Arriva come la sposa, avvolto nella casacca da chef, sfoggiando un pantalone bermuda chicchissimo che lambisce la calza lunga in filo di Scozia fino al ginocchio. Sul naso, gli occhiali “quadrotondi” che sono diventati letteralmente un’icona di questo bizzarro, geniale personaggio della gastronomia italiana. Giancarlo Morelli è l’hombre del partido. Gioca in casa, sul suo campo, che poi altro non è che il suo regno, diviso in due solo per comodità, ma non nell’anima: da un lato il Morelli ristorante, dall’altro il Bulk Mixology Food bar, entrambi al piano terra dell’Hotel VIU, entrambi espressione della sua creatività. Siamo a Milano, in un crocicchio di sensazioni diverse, tra l’etnobizzarria del quartiere Paolo Sarpi e il Famedio dove riposano le glorie della città. Un luogo che pare fatto apposta per mantecare insieme istanze cosmopolite e fiero passato meneghino.
Da Ducasse al gin
In questa cornice, dicevamo, lo chef avanza fra abbracci e baci e felicitazioni e antichi amici e nuovi fan come una star, cosa che in effetti ormai è. Dall’adolescenza sui transatlantici all’apprendistato da Ducasse, fino alla gestione del golf club di Monticello e all’apertura del Pomireau di Seregno, con cui arriva alla stella Michelin, Morelli è il contrario delle meteore dei fornelli e il pubblico glielo riconosce da anni. Logico, dunque, che per il lancio del suo gin, che su consiglio dello storico collaboratore Alessandro Colombo non poteva che chiamarsi Gin Gian, ci sia attesa e curiosità, con punte di sana euforia.
L’etichetta – dove campeggia la sua simpatica faccia barbuto-occhialuta dai vispi occhi blu – è un po’ ovunque: sulla fiancata di un furgone all’ingresso del locale, sugli sfondi del set fotografico e ovviamente sulle bottiglie che si svuotano a buon ritmo mentre i bicchieri da gin tonic si riempiono, in ossequio alla teoria dei vasi comunicanti. E mentre il dj set si scalda, forse è tempo di capire che cos’abbiamo nel bicchiere.
Le botaniche di un vita
Gin Gian è tecnicamente un compound gin realizzato dai ragazzi torinesi di The Spiritual Machine, gli unici che siano riusciti a star dietro alle richieste di Morelli. Che l’idea di un suo gin l’aveva chiara in mente da anni, nitida come una ricetta. Solo che nessuno degli innumerevoli distillatori era disposto a seguirlo fideisticamente: «Volevo un gin che mi rappresentasse», racconta. Quindi, aggiungiamo noi, originale, complesso, fantasioso. Lo chef fa il modesto: «Più che altro direi divertente».
Dunque, le botaniche dovevano essere tante. E sarebbero state perfino di più se i distillatori – seguaci fedeli ma pur sempre professionisti – non ne avessero “tagliata” qualcuna per esigenze tecniche. Fra le 19 sopravvissute, ci sono ginepro evidente («un omaggio alla mia cucina molto improntata alla selvaggina»), lime peruviano («ricordo di uno dei viaggi che mi hanno formato»), bergamotto, menta, eucalipto, ibisco, camomilla, rosa canina, radice di colombo, mirra, incenso ed aloe.
Il risultato è un distillato aromatico che secondo noi rientra perfettamente nella categoria dell’Italian gin, dove il rigore produttivo si inchina all’estro e al bilanciamento delle botaniche. Il naso si apre verde e croccante, con la menta sugli scudi e una sensazione di finocchio, seguita dal cardamomo e dal lime. Solo in un secondo momento arriva il ginepro. Al palato si conferma fresco, ma con un accenno terroso di radici amare, innestate su un corpo dolce, morbido e con gli accenni floreali della rosa e della camomilla. Il finale è il regno delle spezie, con guizzi piccantini e amarognoli che invitano – come se ci fosse bisogno di sollecitazioni ulteriori – a berne un altro. Magari accanto a uno dei bicchieri di burrosissima polenta concia che vengono serviti dai camerieri, in un geniale abbinamento che tradisce le vigorose radici bergamasche di Morelli.
Dalla miscelazione alla cucina
In generale, un gin interessante e fuori dagli schemi, diremmo “da diporto”, cioè piacevole e spassoso, ideale con la tonica (a proposito, meglio stare sulla classica, senza ghiribizzi eccessivi che andrebbero a interagire in maniera inappropriata con le parecchie botaniche del gin). Noi, che va bene il G&T con la scorzetta di lime e la spruzzata di bergamotto, ma ogni volta dobbiamo spingerci più in là, ci siamo fatti fare anche un Martini cocktail. Ne è uscito un drink senza il rigore secco della versione tradizionale, con digressioni palatali sul balsamico e il floreale e una generale “benevolenza”. In parole povere, se cercate un Martini cocktail morbido e aromatico, va alla grande. Se proprio dobbiamo, forse qualche grado in più avrebbe giovato all’intensità generale, ma siamo nel campo dei gusti.
C’è giusto il tempo di chiedere a Morelli quanto c’è di Autoctono in questo suo figliuolo alcolico: «Moltissimo – ci racconta -, perché oltre alla manodopera anche quasi tutte le botaniche sono italiane e bio». E mentre si lascia scappare che anche in cucina fa meraviglie («con la riduzione si fanno certe salsine per la pernice…»), chiudiamo con una di quelle domande da questionario di Proust dei poveri: ma se fosse una ricetta, che ricetta sarebbe Gin Gian? Ci pensa un attimo: «Sarebbe il piatto che più mi ha dato e ancora mi dà soddisfazione mangiare: la polenta e coniglio di mia madre». Dalle stelle (Michelin) alle stalle della pianura natia, la vita è un cerchio che naviga in tondo nel gin tonic.