La nascita degli imbottigliatori indipendenti italiani, che negli anni ’60 e ’70 partivano alla ricerca di botti pregiate tra le Highlands
Ogni parte della realtà ha un lato fatto di numeri, misurabile e concreto, e uno più impalpabile, fatto di parole, opere e suggestioni. La verità (sempre che esista) si trova nell’ordito in cui i due piani si intrecciano. Il whisky in Italia – nonostante sia difficile intrecciare i liquidi – non fa eccezione. Dunque, le statistiche dicono che da noi si beve poco, pochissimo: ogni francese consuma 2.15 litri di distillato di malto all’anno, ogni italiano solo 0.16. Parallelamente, nessuna cifra può spiegare un’altra realtà. E cioè che il single malt come lo conosciamo oggi è una “invenzione” molto italiana, che si fonda su una figura professionale relativamente poco nota al grande pubblico: ovvero l’imbottigliatore indipendente. Una figura che oggi è sempre più centrale.
Occorrono però un paio di passi indietro per capire meglio. Primo: cosa fa esattamente di mestiere l’imbottigliatore indipendente? Detta grossolanamente, cerca botti di distillato di qualità da acquistare, far eventualmente invecchiare ulteriormente (nello stesso barile, oppure in altri per affinamenti particolari) e infine imbottigliare a una gradazione di suo piacimento, commercializzandole con una propria etichetta. Come sia nato questo mestiere, però, merita un secondo passo indietro.
Scotch, dai primi successi agli indipendenti italiani
Il successo dello Scotch, l’acquavite scozzese a base di orzo, risale alla seconda metà dell’Ottocento. Più precisamente quando la rivoluzione industriale e la tecnologia consentirono l’avvento e la diffusione del rapido e prolifico alambicco a colonna. Con questo strumento, si potevano aumentare i volumi unendo distillato di grano al tradizionale distillato di malto da alambicco discontinuo.
Il rifiuto degli irlandesi, fino a quel momento leader assoluti, di adottare quella “diavoleria” e la fillossera che spazzò via dal mercato il diffusissimo cognac fecero sì che lo Scotch whisky diventasse un fenomeno mondiale. Una forte realtà economica, in cui i “merchants” si occupavano di reperire liquido da diverse distillerie per realizzare ricette particolari, riconoscibili e replicabili, dai vari Johnnie Walker al Cutty Sark, dal Famous Grouse al J&B, il whisky della Justerini&Brooks, fondata nel Settecento dall’italiano Giusterini. Ma questa è un’altra storia…
Garten Bar: il primo whisky bar del nostro paese
Stavamo invece parlando del boom dello Scotch, fra il XIX e il XX secolo conquista l’intero mondo. Negli anni del Dopoguerra, complici anche i militari alleati che di stanza in Europa lo consumano e lo fanno conoscere, il whisky inizia a diffondersi in maniera importante anche in Italia, suscitando interesse soprattutto in alcuni giovani. Eduardo Giaccone, per esempio, nel 1958 apre a Salò il Garten Bar, considerato il primo whisky bar del nostro paese, e inizia a viaggiare per conoscere meglio il prodotto. Proprio come Rino Mainardi, che in quegli anni va a prendersi delle casse di Scotch in Scozia addirittura in Vespa, diventando amico di George Urquhart, il numero uno della Gordon & Macphail di Elgin. Ed è in questi anni, in cui le distillerie aprono i magazzini a questi italiani dall’inglese stentato innamorati del loro distillato, che qualcosa scatta: l’Italia cambia il corso della storia del whisky mondiale.
Quei pionieri, che per passione e curiosità sfidavano una terra spesso senza strade asfaltate e senza illuminazione, tra gli anni ’60 e ’70 battono le Highlands in cerca di botti. In un mercato totalmente dominato dai blended, quei visionari – capitanati da Silvano Samaroli, destinato a diventare un’icona e un mito – cercano l’unicità, la chicca, il carattere primigenio delle distillerie. Dal blended il focus si sposta sul single malt, dunque. Dal generale al particolare, dal prodotto di larghissimo consumo, replicabile e sempre uguale (consistent, direbbero in Scozia) al barile singolo. Si cerca il single cask diverso da tutti gli altri, l’edizione limitatissima, l’esperienza di assaggio irripetibile. Una rivoluzione filosofica ancor prima che di marketing, dettata dalla particolarità della cultura enogastronomica nostrana, così intimamente fondata sulla diversità, basti pensare alla varietà dei vitigni autoctoni.
L’avvento del single malt
Nasce così l’età dell’oro del single malt “all’italiana”. Mainardi con la sua Sestante, Samaroli con l’omonima etichetta, Moon Import di Pepi Mongiardino, Intertrade e High Spirits di Nadi Fiori, Giorgio d’Ambrosio con il suo BarMetro e ovviamente Arnaldo Giovinetti, a cui si deve l’importazione in Italia del Glen Grant 5 anni, il primo single malt – fatto realizzare appositamente per il nostro Paese – in grado di competere con i blended in termini di facilità di beva e soprattutto di prezzo.
E come in ogni età dell’oro, i frutti sono gioielli. Gli imbottigliamenti degli italiani spiccano per qualità e raffinatezza di selezione e diventano subito ricercatissimi. Quasi più all’estero che in Italia, dove però nasce anche un altro fenomeno, quello del collezionismo. La fama di quelle bottiglie, il valore crescente e il fatto che siano sempre più ricercate spinge pian piano le distillerie scozzesi a chiedersi se non valga la pena imbottigliare “ufficialmente” più di frequente il loro single malt, che di solito finisce dritto nei blended. E così, pian piano, fino al lancio dei “Classic Malts” Diageo a fine anni ’80, il single malt conquista il trono di re dei distillati.
La premessa storica era lunga, ma necessaria. Perché aiuta a capire perché il single malt è considerato un “italian job”. Anzi, aiuta a capire perché si parla di “scuola italiana” degli imbottigliatori indipendenti. Perché a quella generazione ne è seguita un’altra – Max Righi con la sua Silver Seal, Fabio Rossi con Wilson & Morgan, Giuseppe Gervasio Dolci e Andrea Giannone con l’etichetta Milano Whisky Festival che ha traghettato il whisky fuori dalle secche della crisi degli anni ’80. E un’altra ancora, che oggi ha reso febbrile la scena dello Scotch nel nostro Paese.
Mercato italiano, oltre i numeri
Prima di fare un elenco ragionato delle nuove e nuovissime etichette attive, viene da chiedersi come mai un tale fiorire di imbottigliatori in un Paese dove – torniamo ai numeri – si beve così poco whisky. Innanzitutto, se è vero che si beve relativamente meno rispetto ad altrove, in Italia si beve proporzionalmente meglio.
Cioè si consuma molto più single malt in percentuale. Tradotto: c’è molta richiesta di bottiglie di qualità, dove qualità significa invecchiamenti importanti, grado pieno (non diluito), prodotto non filtrato e “stile”. Stile nella selezione, ma anche nella veste del packaging, nello storytelling.
Inoltre, grazie anche al Milano Whisky Festival, negli ultimi 10/15 anni il whisky è uscito dal salottino stantio dell’immaginario collettivo, in cui era confinato a bevanda da ottuagenari proprietari di setter e fumatori di pipa. Gli under 35 hanno iniziato ad appassionarsi. Il single malt è diventato popolare fra gli hipster, presso i quali il gusto della chicca eccentrica è ancor più spiccato. Infine, il whisky è diventato – nonostante i prezzi in aumento vertiginoso – un business. Inevitabile quindi che attiri nuovi attori.
Tra imbottigliatori e selezionatori
Ma si sa, ogni grande idea nasconde delle difficoltà. E il mondo degli imbottigliatori indipendenti non è da meno. In primis, la più grande differenza rispetto al passato sta nella disponibilità di barili. I pionieri andavano in Scozia e avevano accesso a tutte le warehouses.
Il single malt non esisteva commercialmente e quindi potevano acquistare qualsiasi cosa. Oggi invece il whisky è un bene rifugio, un investimento. Sono nate vere e proprie compagnie di brokeraggio di barili con regole ferree e prezzi fuori controllo. La feroce legge della domanda non lascia scampo: più attori sono attivi, più aumenta la richiesta, più i prezzi volano. Con il risultato che oggi è difficile creare un parco botti. Ma se non si possiedono botti giovani da far maturare a piacimento, più che di “imbottigliatori” ha senso parlare di meri “selezionatori”. Senza contare che i broker sempre più spesso non forniscono neppure campioni per l’assaggio. Il che – molto prosaicamente – riduce l’attività a una serie di email e analisi di fogli excel con prezzi, gradazioni e specifiche: non esattamente il mestiere più elegiaco del mondo, distante anni luce dalle avventure in Vespa nelle Highlands degli anni ’70.
Dall’archivio di Spirito Autoctono 2023