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RUM, IL DISTILLATO PIÙ ANARCHICO (VOL. 2)

Storia lunga, geografia larga, scienza mai esatta: in viaggio nel mondo del Rum

– di Marco Zucchetti pubblicato il 6 luglio 2023 –
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Nel confronto fra i tre diversi stili abbiamo dato per scontate un paio di cose che meritano di essere chiarite. Innanzitutto, la materia prima. Il rum (o la cachaça brasiliana, o il clairin haitiano o il grogue di Capo Verde) può essere ottenuto sia dalla distillazione del succo fresco di canna macinata, tradizionalmente con macine azionate da muli, dal succo concentrato, chiamato jus cuit o sciroppo, oppure dalla distillazione della melassa fermentata, ovvero lo “scarto” proveniente dalla produzione dello zucchero. Poiché il rum è prodotto in territori autonomi e spesso isolati anche geograficamente (i Caraibi ne contano a decine, ognuno con un heritage differente), ciascuno affronta le fasi della fermentazione e della distillazione a modo proprio.

Si fa presto a dire canna da zucchero

Innanzitutto c’è il dilemma della canna. Perché di varietà di canna da zucchero ce ne sono tante. La grande differenziazione è fra naturali e ibride, ovvero selezionate e incrociate per ottenere maggiore resistenza ai parassiti o maggiore resa. Quelle ancestrali ormai sono rarissime. In questo senso l’isola di Haiti, rimasta di fatto esclusa dal mondo in seguito alla rivolta degli schiavi culminata con l’indipendenza del 1804, è oggi il paradiso della canna Créole, una delle poche varietà selvagge ancora utilizzate.


La raccolta della canna da zucchero
La raccolta della canna da zucchero

In secondo luogo, occorre capire come lavorarla, questa canna. C’è chi utilizza un mix di succo e melassa, chi si basa su lieviti selvaggi, chi aggiunge il dunder (lo scarto dealcolato delle distillazioni precedenti), chi le bagasse (residui legnosi della macinazione della canna), chi l’aceto di succo, chi addirittura utilizza la tecnica del mockpit (una sorta di “pozzo nero” in cui vengono “allevati” i lieviti selvaggi da generazioni e che consente lo sviluppo di acido butirrico in quantità). C’è chi addirittura aggiunge spezie e frutta nel tino di fermentazione, chi calce, chi chips di legno… Insomma, un regolamento chiaro, univoco e condiviso non c’è. Ognuno ha sempre fatto un po’ come gli pareva e il risultato è un tale spettro infinito di sentori che talvolta due prodotti non sembrano neppure parenti. Vi sfidiamo a bere un Mhoba bianco sudafricano e uno Zacapa…

Le reazioni chimiche che producono gli aromi sono complesse e dipendono da tanti fattori (tempo e temperatura di fermentazione, natura dei lieviti, durata della distillazione): il lavoro del distillatore è realizzare un particolare tipo di profilo.

Farne di tutti i colori: l’invecchiamento

Storicamente il rum veniva consumato bianco, ovvero appena distillato. Così come il mezcal, non era spirito nobile, ma prodotto di pronta beva. Per conservarlo (e trasportarlo in Europa!), i mercanti hanno utilizzato barili di rovere, accorgendosi che con il passare dei mesi il legno dona al distillato colore e profumi terziari aggiuntivi.

Così è nato il rum invecchiato, che nel tempo è diventato una categoria a sé, con una fruizione spesso differente. Se il rum bianco è solitamente consumato con succo di frutta, ghiaccio e lime (dal Daiquiri al Ti’ punch fino al Mojito e al Cuba libre da discoteca), i rum invecchiati – più profondi e strutturati – danno il meglio di sé in una bevuta liscia, o come si dice (orribilmente) oggi, “da meditazione”. Si hanno così rum “bianchi”, “ambrati” o “scuri”, che altro non sono che “giovani”, “anejo” o “extra viejo”, o ancora “vsop” e “xo”, le diciture mutuate dal cognac.

Dove invecchia un Rum?

Qui si apre un altro tema di discussione: dove invecchiano questi benedetti rum? Già perché il clima influisce sulla maturazione dei distillati. Un rum che invecchia per pochi anni ai tropici, con temperature e tassi di umidità alti, avrà un’interazione più accelerata con il legno, che donerà i suoi sentori e colori in minor tempo.

Al contrario, una maturazione “continentale”, ovvero quella tradizionale, in cui i barili riposano nei magazzini delle compagnie di navigazione europee da Liverpool a Bristol a Rotterdam, avviene in maniera più lenta e controllata. Insomma, l’età – come succede spesso anche con gli esseri umani – è spesso mendace.

Senza contare che esiste un ulteriore discorso da fare: se per il single malt l’età in etichetta (poniamo: 12 anni) indica il più giovane distillato presente in quella bottiglia, per il rum non è così. Anzi, può succedere che quell’età indichi il più vecchio spirito usato nel blended. Uno Scotch 12 anni può essere dato dal 99% di whisky di 50 anni e una goccia di 12 anni. Un rum 12 anni può essere dato dal 99% di rum di 3 anni con una goccia di 12 anni.


Rum

Ultima precisazione: la stragrande maggioranza dei rum invecchia in barili di rovere americano che precedentemente avevano contenuto bourbon, il quale per disciplinare può maturare solo in botti vergini, ragion per cui i barili già usati sono tanti ed economici. Per ottenere sfumature diverse, certi rum invecchiano in barili ex sherry o addirittura ex cognac (il caso di Plantation).

Zucchero sei e zucchero tornerai

Sempre parlando di regole piuttosto lasche, esiste poi la questione dello zucchero. Nonostante sia un prodotto della canna, una volta uscito dall’alambicco il rum non ha un residuo zuccherino proprio, se non quello legato all’alcol. Tuttavia, nessuno vieta ai produttori di aggiungere caramello in seguito. Sono scelte commerciali.

Per cui si va da rum con pochissimi zuccheri, in ragione di 3 grammi per litro, a vere e proprie bombe di dolcezza, come per esempio Don Papa o Quorhum. Diverso discorso sono le spezie, che se aggiunte dopo la distillazione danno vita ai cosiddetti spiced rum (Kraken, ad esempio). In questo caso, possono contenere vaniglia, cacao, caffè, chiodi di garofano, cannella, macis, e chi più ne ha più ne metta.

Storie di marinai: la questione del grado

Ovviamente anche la gradazione è un fattore di differenziazione. Lo spirito esce dagli alambicchi a un tenore alcolico molto alto: vicino ai 90% se si tratta di colonne industriali, intorno ai 70% se si tratta dei “double retort pot still” usati in Giamaica, per esempio da Appleton. E così via. Dopodiché, il rum viene diluito prima dell’imbottamento. E a volte anche dopo.

Al contrario del whisky, in cui 40% è la gradazione minima consentita, esistono rum anche a 38%. Viceversa, i rum a cosiddetto “grado pieno” (full proof o overproof) non subiscono una seconda diluizione dopo la maturazione in legno.



LA LUNGA STORIA DEL DISTILLATO PIÙ ANARCHICO: IL RUM (VOL.1)

Di Marco Zucchetti


I marinai avevano un metodo infallibile per capire se il loro rum era stato allungato con acqua. Lo versavano su una miccia e poi la accendevano. Se la miccia non prendeva fuoco, la gradazione era inferiore ai 57%, che da allora viene indicata con il termine “navy strength”, gradazione di Marina, e viene utilizzata sia per il gin, sia per il rum.

Il fattore “mark”

A complicare le cose, entra in gioco un concetto che di fatto esiste solo nel rum: il mark. In passato, quando i mercanti acquistavano barili di rum, non li cercavano con il nome della distilleria. Dove o da chi fosse prodotto, non interessava. Interessava il profilo, che era indicato da una sigla tracciata sul barile: un marchio, o mark appunto. TMAL, LROK, VSG e così via, in una specie di cifrario affascinante.


Rum

Il mark è la ricetta, insomma. Ma per spiegarlo servono degli esempi. Prendiamo Hampden: al momento vengono prodotti una decina di mark, ognuno con tempi tecnici e “dosi” diverse, che si riflettono sul profilo organolettico finale, dal più intenso in termini di esteri al più leggero.

Discorso ancora più complicato in Guyana, dove nel corso del tempo tante distillerie hanno chiuso e i loro alambicchi sono stati acquistati dalla Demerara Distillers, che con essi ha rilevato anche i mark. Enmore, Port Mourant, Diamond, Versailles, Skeldon, Uitvlugt: tutti rum diversi prodotti con tecniche e alambicchi diversi. Che siano di proprietà di un unico attore, poco conta.

Blended o single rum, alla ricerca della trasparenza inesistente

Fatte queste ampie premesse, è ormai chiaro che cercare un minimo sistema di regole condivise all’interno del rum è un miraggio. Il principale problema è quello legato alla natura stessa di quel che si ha nella bottiglia. In etichetta – se si eccettuano alcune realtà locali che stanno spingendo per norme più rigide – non c’è l’obbligo di dire non solo da dove provenga la melassa (spesso importata), ma anche se quel rum è composto da spiriti di diverse distillerie o di una sola. Letteralmente, il consumatore non ha modo di sapere cosa stia bevendo quando acquista un “rum”.

Ecco perché nell’ultimo decennio si è sviluppato un movimento – spinto da diversi rum lover come l’italiano Luca Gargano – che spinge per diciture più chiare che aiutino la trasparenza e una classificazione complessa che dal “pure single rum” (prodotto da una singola distilleria con solo distillazione in alambicchi discontinui) passa dal “single blended” fino ai rum industriali.

Classe 1982, è cresciuto a Cremona ma a Milano è nato, si è laureato, vive e lavora come giornalista: in sostanza, è fieramente milanese fin nel midollo. Proprio come il risotto. Quando non si occupa di cose più serie ma più noiose, scrive di distillati: ha collaborato con scotchwhisky.com, fa parte della squadra di whiskyfacile.com e tiene la rubrica settimanale “Gente di Spirito” sul Giornale, di cui è vicedirettore dal 2017. Forse in gioventù ha letto troppo, e così si è convinto che solo gli alambicchi non mentano mai e che da lì esca la vera anima degli esseri umani.

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