Breve storia triste del brandy, lo spirito nobile più rappresentativo dell’ars distillatoria italiana, oggi ridotto all’ombra di se stesso.
Il fermento a cavallo tra IX e XX Secolo, poi il declino. Ma la storia timidamente (e coraggiosamente) prosegue con alcuni nomi, grandi e “piccoli”, che continuano a credere nel distillato di vino italiano.
Lo stato dell’arte oggi
Siamo partiti con il dato agghiacciante del -71% di produzione fatto segnare dal distillato di vino tra il 2021 e il 2022. Ma quali sono gli attori sul palcoscenico oggi? Il mercato è grossolanamente divisibile in tre. La parte del leone la fanno i big, i marchi storici che fanno grandi numeri: Vecchia Romagna, un tempo prodotto da Buton e ora parte del gruppo Montenegro, Stravecchio Branca, Stock 84, il René Briand ora prodotto dalle distillerie Franciacorta, il Carpené Malvolti.
C’è poi una seconda fascia rappresentata dai brandy di distillerie storicamente dedite alla grappa, che recentemente, mosse da quella che sembra un’irresistibile febbre di ampliare il portafoglio di offerta, hanno iniziato a produrre qualsiasi tipo di distillato, dal gin alla vodka fino al whisky e al brandy appunto. Ci sono Italiano e Arzente di Poli, a base trebbiano e distillati a bagnomaria; i brandy di Mazzetti d’Altavilla (dalle riserve di 35 anni fino a un curioso “blendy” non invecchiato); il Collesi XO a base verdicchio e rosso del Conero. E ancora Brandy Of Bonollo in barrique nuove, il brandy trevigiano 47 Anno Domini con vini locali distillati due volte, l’Arzente di Bellavista prodotto in alambicco Charentais da vino chardonnay, il Montanaro con i suoi vintages a lungo invecchiamento…
BRANDY ITALIANO: NOSTALGIA, ERRORI E SPERANZA
Breve storia triste del brandy, lo spirito nobile più rappresentativo dell’ars distillatoria italiana, oggi ridotto all’ombra di se stesso. Capitolo 1
I moschettieri dell’artigianalità
Infine ci sono quattro produttori coraggiosi, ortodossi e un po’ utopisti che nel 2019 hanno provato a riunirsi per rilanciare il brandy italiano artigianale, proponendo un nuovo approccio. Loro sono Guido Fini Zarri (Villa Zarri), Gianni Vittorio Capovilla (Capovilla Distillati), Bruno Pilzer (Distilleria Pilzer) e Mario Pojer (Pojer e Sandri) e la loro filosofia è riassumibile in 7 regolette: rispetto della materia prima perfetta e fresca; fermentazione senza aggiunta di anidride solforosa; distillazione in alambicchi ad estrazione delicata, Charentais o a bagnomaria; invecchiamento rispettoso dello stile; divieto di aromi artificiali; divieto di zucchero e caramello; divieto di manipolazione prima dell’imbottigliamento.
«Nel nostro piccolo proviamo a tenere viva una fiammella – racconta Zarri -, producendo brandy ciascuno in maniera diversa, ma tutti ricercando la qualità. Il problema è che per fare qualità bisogna saper soffrire, l’invecchiamento costa sia in termini di botti sia in termini di tempo. Il che disincentiva la produzione. Ecco perché a fare brandy artigianale in Italia siamo pochissimi».
La pazienza che non abbiamo più
Accanto al discorso economico, ce n’è uno più culturale, quasi generazionale. È Bruno Pilzer ad affrontarlo: «Il brandy è espressione di un modo di vivere che ci appartiene sempre meno, quello legato al gusto dell’attesa, all’assaggio lento. Stiamo parlando di vini coltivati specificatamente per l’evoluzione aromatica in distillazione, di fermentazioni studiate, di sfide tecniche nella concentrazione dei profumi, di invecchiamenti compositi in botti da cambiare, da spostare… Il risultato è il massimo in quanto a complessità ed emozione, si beve la storia, il territorio, perfino la persona che lo ha distillato. Ma tutto questo, oltre ad avere un costo, necessita di una comprensione profonda e di una disponibilità alla fruizione contemplativa che non sono per tutti. Il brandy implica l’uso della memoria e del cervello, non tutti hanno voglia di farlo».
Già, difficile dargli torto, soprattutto in un’epoca in cui il distillato più diffuso è il gin, che non invecchia e ha la sua sublimazione nella mixology. Al contrario, il brandy ancor più del whisky è ostinatamente legato a una impostazione vecchio stile, che ha bisogno di essere raccontata: «E in questo – sospira Pilzer – abbiamo un po’ mancato».
Congiuntura favorevole, panorama desolante
Come riconoscono tutti nel settore, in realtà il momento sarebbe pure propizio. Mai in Italia c’è stato un interesse così diffuso per il distillato, i metodi, la materia prima, lo “spiriturismo” che riempie di visitatori non solo le cantine, ma anche le distillerie, sulla scia del successo dei visitor center delle fabbriche scozzesi di whisky.
Eppure il brandy sembra aver rinunciato a cogliere l’occasione di cavalcare l’onda per tirarsi fuori dalle sabbie mobili. «Oggi gli Stati Uniti stanno trainando la richiesta di distillato di vino – spiega il barmanager Luigi Barberis – con un consumo nuovo, moderno, rivolto ai giovani. I rapper che bevono Hennessy & lemonade, per esempio. Per il brandy italiano sarebbe il momento di fare sistema, di strutturarsi e provare a cogliere l’opportunità data dalle nuove tendenze». E invece…
«… e invece non succede, perché siamo il Paese dei campanili, in cui ciascuno critica l’altro. I piccoli produttori artigianali, ad esempio, non vogliono mischiarsi con i grandi. Ma senza la grande industria, si finisce a parlare nel vuoto, il nome non arriva. E dato che il brandy si produce ovunque, dall’Armenia alla Cina fino alla California, se non la cogliamo noi, l’opportunità la coglierà qualcun altro, privo della nostra storia. E replicheremo quel che è successo con il brandy spagnolo, che vende il triplo di noi. Ed è uno scandalo…», continua Gigi. «D’altronde, oggi le grandi case hanno in cantina delle riserve di trent’anni che non imbottigliano perché non si vendono, e così le utilizzano in amari improbabili o per macerarci le ciliegie, mentre i francesi buttano le chips di legno nei distillati per accelerare la maturazione perché non hanno sufficiente prodotto. È evidente che c’è un problema di comunicazione».
Diversa l’opinione di Zarri, l’unico produttore esclusivo di brandy artigianale in Italia: «I grandi marchi non sono interessati alla qualità, perché è un investimento a lungo termine. Oggi si preferisce addirittura fare il whisky piuttosto che il brandy. Sono trent’anni che provo a portare avanti la battaglia di una produzione di nicchia ma eccellente, speravo che qualcuno mi seguisse, ma sono rimasto da solo. E oggi non vedo grandi novità all’orizzonte: è uno scenario statico, in cui il prodotto di qualità è limitatissimo, affascina chi lo assaggia ma rimane in semi-clandestinità. Ho rinunciato alla velleità di fare scuola, mi tengo la soddisfazione che deriva dal fare le cose a modo».
Eppur si muove
In questo quadro poco entusiasmante, qualcosa, a dire il vero, sembra muoversi all’orizzonte. All’inizio di ottobre hanno preso il via le attività di un progetto di promozione del brandy italiano in Cina promosso da Assodistil e cofinanziato dalla Ue.
“Ciao Brandy!”, questo il nome del progetto, è un percorso triennale che vedrà operatori di settore, bartender, giornalisti e influencer viaggiare in Cina per far conoscere la storia e le potenzialità del distillato di vino italiano, una delle tante eccellenze del made in Italy verso cui in Estremo Oriente, come ricordato dal direttore generale di Assodistil Sandro Cobror, c’è grande curiosità. Inoltre, anche i grandi nomi sembrano aver capito che serve un lavoro diverso. Comunicazione seria e puntuale, “story telling” che esalti le infinite potenzialità gustative del brandy e riserve premium da collocare in una fascia di mercato diversa da quella in cui fino a pochi anni fa era relegato il distillato di vino: correzione da caffè e manovali dell’Est Europa.
Il Gruppo Montenegro, proprietario del brand storico Vecchia Romagna, che è anche il distillato italiano più venduto al mondo (48% del mercato nazionale dei brandy e fatturato di 39 milioni di euro), si sta muovendo in questo senso. «Da 200 anni Vecchia Romagna è simbolo del saper fare italiano – spiega Gianluca Monaco, Marketing & new business director del Gruppo – e ancora oggi continua ad innovare. I recenti lanci di Riserva Tre Botti e Riserva 18 anni ne sono la testimonianza».
E che accanto ai prodotti di base si stia sviluppando una gamma di imbottigliamenti più di spessore, è una verità che anche gli appassionati iniziano a notare. «Ho assaggiato recentemente alcuni nuovi rilasci di un grande marchio – racconta Pilzer – prodotti seri, piacevoli. Ovviamente devono rispondere alle logiche di marketing e non sono personali e irripetibili come quelli artigianali, ma sono lontani anni luce da certe cose del passato».
Dunque, che fare?, come direbbe Lenin. «Ovviamente non ho una ricetta – conclude Pilzer -, ma sto pensando che forse anche noi piccoli dovremmo cambiare qualcosa. Inventarci qualcosa dal punto di vista tecnico che offra un’emozione diversa. Per esempio, perché non ridurre gli invecchiamenti? Il mio brandy ora è arrivato a 15 anni, ma è quasi troppo. Perché non imbottigliare prodotti più freschi, magari di 5 anni come i Napoleon francesi, ancora vibranti anche se magari meno complessi?».
Piano piano, qualche idea viene fuori. Uno spunto, un tentativo, una voce nel deserto. A rilento, l’ex gigante anchilosato del brandy italiano prova a scuotersi la polvere e la malinconia di dosso. Ognuno a suo modo, i vari attori in scena dicono (e fanno) la loro.
In attesa di capire se gli sforzi saranno premiati e se basteranno per ridare a un distillato meraviglioso l’onore e il successo che merita, ci limitiamo ad apprezzare un primo passo: i tempi della quantità fine a se stessa sono morti e sepolti, e tutti sembrano aver capito che non esiste rilancio senza serietà e qualità. Il “vino bruciato” lasciamolo alla storia e all’etimologia.