Breve storia triste del brandy, lo spirito nobile più rappresentativo dell’ars distillatoria italiana, oggi ridotto all’ombra di se stesso. Capitolo 1
Meno settantuno percento. No, purtroppo scriverlo in lettere non lo rende meno desolante. Nel rapporto che ogni anno AssoDistil – l’associazione di categoria che riunisce i distillatori italiani di alcolici – redige sullo stato dell’arte del settore, in un periodo di ripresa post-pandemia e di crescente consapevolezza e interesse del pubblico nei confronti dei distillati, un dato fa pensare: nel 2022 l’acquavite di vino è crollata da 6.150 ettanidri (cento litri di alcol anidro) a 1.800. Tradotto: il brandy è l’unico prodotto della distillazione in Italia che sta soffrendo. Se poi si pensa che soli dieci anni fa la produzione era di 104.000 ettanidri, beh, non è allarmistico dire che il brandy italiano è più a rischio estinzione dei panda.
Eppure, non stiamo parlando di un ghiribizzo elitario, né di una moda straniera importata per vezzo e poi inevitabilmente abbandonata. Tutt’altro. Il brandy è stato per secoli uno dei due principali distillati nostrani, figlio prediletto del vino come la sua sorellastra, la grappa. Ma se lo spirito di vinacce è sempre stato nettare giovane, ruvido e popolare, il brandy per lungo tempo è stata la metà nobile del cielo, il distillato rinomato e “ricco”, fine e dai lunghi invecchiamenti. Ecco perché, come le grandi casate decadute, vederlo ridotto così fa ancora più impressione.
Le origini del “vino bruciato”
Per comprendere a fondo l’importanza del brandy nell’universo italiano della distillazione, come sempre è utile fare un passo indietro per avere una visione d’insieme più chiara. Il nome deriva dall’olandese brandewijn, ovvero “vino bruciato”, e se ne trova per la prima volta traccia in alcune commedie e ballate inglesi del Seicento. Eppure, la sua invenzione ha poco a che fare con i pur geniali commercianti di spiriti dei Paesi bassi. Anzi, affonda le radici nelle sperimentazioni con gli alambicchi degli alchimisti musulmani Omayyadi del califfato di Cordova e nella grande disponibilità di vino di Jerez in Andalusia. Agli olandesi va però il merito di avere compreso le potenzialità commerciali di quel distillato di vino. E di averlo regalato – pardon, venduto, da bravi capitalisti – al mondo.
Gli inglesi di Marsala
In Italia le cose procedono in maniera diversa. La pratica di distillare il vino era ovviamente ben conosciuta grazie alla Scuola Salernitana, capostipite di ogni bravo distillatore europeo. Tuttavia, essendo il vino un prodotto di consumo e certamente non di scarto come le vinacce, distillarlo era considerato uno spreco. Almeno fino a quando nel Settecento non scendono in campo gli inglesi. I quali iniziano a distillare vino in Sicilia per fortificare il Marsala, più o meno sull’esempio del vino di Porto. John Woodhouse, seguito da Benjamin Ingham e suo nipote Joseph Whittaker nel 1806, nel 1773 approda sull’isola, assaggia il locale vino “Perpetuum” e decide di farne un rivale dello sherry, aggiungendovi inizialmente rum, poi distillato di vino.
Bologna, la “Charente italiana”
Per arrivare a una vera e propria industria del brandy, però, occorre aspettare ancora qualche decennio e spostarsi più a Nord, a Bologna, dove nel 1820 si trasferisce un reduce napoleonico originario della regione cognacchistica della Charente: Jean Bouton. Il quale è fornitore della casa imperiale di Napoleone e si è messo in mente di replicare il Cognac in Emilia, terra geologicamente affine. Cambia nome in Giovanni Buton, fonda l’omonima distilleria insieme al pasticcere Giacomo Rovinazzi e sceglie “filologicamente” di distillare il vino Trebbiano, da cui discende l’ugni blanc base del Cognac. Inizia così la gloriosa storia del brandy italiano, che al contrario dei cugini francesi – come si legge sul blog Cognac&Cotognata dell’amico farmacista gourmand e delizioso divulgatore Thomas Pennazzi – non ha mai avuto una tradizione di produzione familiare e contadina sulla scia dei boilleurs de cru.
Fillossera tua, vita mea
A fine XIX secolo, quando la “peste del vino”, l’epidemia di fillossera che colpisce e devasta i vigneti francesi, annienta la produzione di cognac, l’Italia diventa una piccola mecca del brandy. Che, è bene ricordarlo, a quei tempi è ancora chiamato cognac, dato che soltanto dagli anni ’30 e ’40 del Novecento entreranno in vigore i disciplinari di produzione che vieteranno a chiunque di chiamare il distillato di vino con quel nome fuori dalla regione omonima (l’accordo con l’Italia è del 1948). Ad ogni modo, senza viti e senza vino, a cavallo del secolo per distillare si viene in Italia. Dove – sulla scia di Buton e di Vincenzo Florio, signore del Marsala dal 1832 – fioriscono decine di marchi, alcuni destinati a durare.
Una lista esauriente si trova nel volume Il brandy italiano, a firma di Angelo Matteucci: a Milano ci sono Ausano Ramazzotti e la famiglia Branca con il suo “vieux cognac” e il suo Stravecchio (1892); a Trieste Lionello Stock arriva dalla Dalmazia (1884) attirato dalla grande disponibilità di vino e botti di rovere di Slavonia; i fratelli Landy (1870) e René Briand (1935) arrivano dalla Francia; Antonio Carpené e Pilla con il suo Oro seguono a ruota; compaiono i prodotti di Martini & Rossi, il Vecchia Romagna di sapore autarchico di Buton, gli imbottigliamenti di Sarti e Gambarotta…
Forte di una grande quantità di vini ad alta acidità adatti alla distillazione, il cognac, o brandy, o “arzente” come rinominato fantasiosamente ma con scarso successo da Gabriele d’Annunzio, esplode in Italia in termini di consumo e di marketing, con una produzione straordinaria di poster pubblicitari in stile Liberty – raffinatissimi quelli firmati da Dudovich – ancora oggi ricercati e collezionati.
Arresto, declino e rovina
Negli anni del dopoguerra, che presto diventano gli anni del Boom industriale, tutto accade velocemente e la rete di cause ed effetti è ancora troppo densa da poter dipanare in una sequenza certa di colpe e responsabilità.
Quel che sappiamo è che dagli anni ’70 il brandy italiano inizia un declino inarrestabile. Un ruolo può averlo giocato la “scoperta” del single malt whisky, grazie ai pionieri italiani come Mainardi, Samaroli, D’Ambrosio e Giaccone; altri sostengono che i gusti del pubblico siano cambiati anche grazie alle strategie dei colossi del beverage, sempre più concentrati sul promuovere il consumo di prodotti “bianchi”; altri ancora puntano il dito sulle falle nella struttura produttiva, in cui nessuno ha mai tenuto le redini dell’intera filiera. Su un aspetto però tutti gli esperti concordano: il brandy italiano ha fatto di tutto per rovinarsi da sé.
Processo al brandy italiano
Gigi Barberis, che nell’Alessandrino gestisce diversi locali (fra gli altri il Caffè degli Artisti, SpiritOH, Itaca) ed è posseduto dalla magnifica febbre per il distillato di vino, non è tenero: «Il brandy è sempre stato il distillato nazionale importante, quello con il pedigree. Il problema è arrivato quando con il boom è aumentata la domanda. E i produttori, invece di puntare sulla qualità come i francesi, hanno iniziato a fare porcherie. La qualità si è abbassata drasticamente, e il buon nome del distillato è stato talmente screditato da annientare in breve tempo il consumo».
«Il brandy italiano non ha saputo darsi delle regole di qualità – scrive Pennazzi -. All’eccellenza ha preferito il galleggiamento nel mass market dei grandi numeri, senza investire in materia prima, tecnologia e comunicazione».
Disciplinare lasco e miopia industriale sono alla radice della crisi anche per Guido Fini Zarri, pioniere del rinascimento del brandy artigianale italiano: «Il prodotto industriale per decenni ha avuto un costo risibile e margini comunque apprezzabili. Per questo i grandi marchi hanno avuto poca voglia di perseguire le strade più tortuose dei lunghi invecchiamenti, delle riserve, della qualità. Si sono accontentati, con il risultato che oggi quando uno straniero assaggia un brandy italiano si chiede stupito se anche noi lo produciamo. È il colmo: noi che lo facciamo da due secoli…».
C’è poi la prassi, per fortuna sempre meno accettata, di una produzione poco rispettosa della materia prima. Partite di vino in esubero – sovrapproduzione, fondi di cantina o addirittura annate storte – che vengono ritirate, “salvate” dalla trasformazione in alcol denaturato e distillate, per poi essere lasciate a maturare in “fustaglia” per poco più di un anno. Non la più accurata etica produttiva. Inevitabile che prodotti di questa risma finissero per essere snobbati dai consumatori e che qualcuno, interpellato, risponda con poca empatia: “Il brandy italiano? Requiescat in pacem, berremo cognac”.
Regole sregolate
A questo punto, arriva la domanda consueta: ma come è possibile che siano state consentite queste cattive pratiche con cui nei decenni il brandy italiano si è di fatto buttato via, dilapidando un patrimonio di qualità e stile? (L’iconica bottiglia triangolare di Vecchia Romagna, seppur mutuata dalla scozzese Dimple, è ancora oggi inimitabile come quella del Campari di Depero).
La produzione di brandy è regolata dal Regio decreto 1126 dell’11/5/1926, mentre l’Indicazione Geografica del brandy italiano, il disciplinare che cerca di regolarne la produzione, è recentissima, risale al 2016. Ma di fatto è tutt’altro che stringente.
Può chiamarsi “brandy italiano” il distillato di vino proveniente da uve coltivate e vinificate sull’intero territorio nazionale, invecchiato in botti di quercia per almeno un anno, o sei mesi se la capacità è inferiore a mille litri. Si possono usare distillato di vino ed acquavite, si può aggiungere zucchero (20 grammi per litro al massimo) e caramello, si possono usare sostanze aromatizzanti naturali e trucioli in infusione o macerazione (massimo 3%).
La gradazione deve essere almeno di 38%. Non serve essere esperti per capire che si tratta giusto di linee guida generali, che consentono di fare praticamente tutto: si può distillare qualsiasi vino con qualsiasi tipo di alambicco e si può pasticciare con i legni a piacimento, e dopo sei mesi si ha del “brandy italiano” a norma di legge. Nessun legame con il vitigno e il territorio, nessuna radice a legare il prodotto all’ars distillatoria artigianale. Di fatto, una scatola vuota che ideata così non porta nessun “plus”. Prova ne è che i grandi marchi neppure riportano la dicitura “brandy italiano” in etichetta. Un po’ perché al momento non porta vantaggi commerciali, e un po’ perché così si hanno le mani più libere, caso mai si volesse comprare del vino dall’estero… Un fallimento nel fallimento.
Ma la storia non finisce proprio qui. Ve lo raccontiamo nella seconda parte di questo articolo…