vermouth

Vermouth. Correva l’anno 1786 (vol.1)

C’era una volta un giovane erborista, il Signor Carpano. Duecentocinquanta anni e non sentirli, viaggio nella storia del primo aperitivo

C’era una volta un giovane erborista, che alcuni chiamavano Antonio Benedetto e altri Signor Carpano, che nella Torino di fine Settecento decise di addizionare del vino locale con erbe e spezie. Poi c’era una volta una bevanda medicamentosa in uso tra gli antichi greci e i romani, che sarebbe diventata il primo aperitivo della storia. E ancora, c’era una volta un grande autore tedesco. E c’era, infine, una pianta di artemisia.

Le origini del vermouth

Correva l’anno 1786 quando a Torino, in quella che un domani sarebbe diventata Piazza Castello ma che fino ad allora tutti conoscevano come piazza della Fiera, delle giovani mani si muovevano tra gli scaffali della Liquoreria Marendazzo alla ricerca delle droghe giuste per aromatizzare una partita di moscato acquistato a Canelli per l’occasione. La voglia di sperimentare di un apprendista stregone, che a scope animate preferiva però mortai e alambicchi, portò lo stesso a immaginare una bevanda ispirata a quel vinum absinthites che Greci e Romani consumavano a fini medicamentosi, e che la leggenda vuole fosse stato creato dallo stesso Ippocrate, quello del giuramento.

Miscele di uso comune, che scomparvero sotto la polvere alzata dalle orde barbariche, che sancirono la fine dell’Impero Romano di Occidente, salvo poi riaffacciarsi nella Germania post medievale, con i figli (putativi, s’intende) di Martin Lutero che alternavano i loro anatemi contro la Chiesa romana bevendo un vino lasciato in infusione con erbe e assenzio. O, in altri tempi e ad altre latitudini, nella Firenze dove il Villafranchi stava scrivendo il suo trattato ‘Oenologia Toscana’, dato alle stampe nel 1773.


Vermouth

Moscato e Artemisia secondo Carpano

Medicamentose dicevamo, ma anche amare, tanto che a taluni la cura dei problemi digestivi risultava peggiore dei mali stessi. E fu per risolvere questo problema che alle stesse mani, e forse anche alla testa attaccata poco più in alto, l’aromaticità dolciastra del Moscato di Canelli sembrò perfetta per stemperare l’animo amaricante delle erbe, realizzando così una bevanda intensa ma godibile. Iniziarono mesi di infusioni, dove cardamomo, china, coriandolo, rabarbaro e vaniglia entravano e uscivano dal ricettario, cercando di far quadrare un bicchiere che proprio non ne voleva sapere della geometria. Su una cosa però quelle mani non transigevano: l’uso, accanto al Moscato, dell’artemisia, cui oltre al sapore si deve anche il nome della futura bevanda: il vermouth.

Sul perché Antonio Benedetto Carpano – a lui appartenevano quelle mani e quella testa impegnate a elaborare – abbia scelto il nome tedesco dell’artemisia (wermut) per identificare la sua creazione ci sono molte teorie. Ma a noi, che in fondo al cuore siamo dei bevitori romantici, piace pensare che sia stata dettata della passione che l’erborista nutriva per gli scritti di Johann Wolfgang von Goethe, che immaginiamo conversare amabilmente d’amore, di morte e di altre sciocchezze seduto in uno dei tanti bistrot all’ombra della Mole (anche se, a ben pensare, la Sinagoga mancata avrebbe preso forma solo alla fine del secolo successivo, quindi non è da escludere che ‘Gianni Il Crucco’ fosse in realtà seduto sotto il sole).

Antonio Carpano e la cura per l’anima

E no, Antonio Benedetto non ha inventato il vermuth, almeno non più di quanto abbia inventato l’acqua calda. A lui se ne deve però il cambio d’uso: non più la cura del corpo, ma dell’anima. Una nuova declinazione, ludica, del vino ippocratico, da apprezzare prima dei pasti, in virtù della sua capacità di aprire stomaci e menti dei commensali al pasto ormai prossimo. E fu così che una bevanda nata per soddisfare la clientela della bottega si trasformò, anche senza patatine o piatti gourmet, nel primo aperitivo della storia. Una rivoluzione, che, a differenza di quanto succedeva a Parigi, non reclamava né croissant né teste, bensì vermouth, alla maniera di Carpano.

Dall’oceano alle credenze delle nonne

Lo stesso Vittorio Amedeo III di Savoia, i cui titoli superavano di gran lunga le amanti di Armando Feroci, ebbe modo di assaggiare la bevanda prodotta a poche decine di metri dalla sua dimora. Perché, oltre a essere un sagace erborista, Antonio Benedetto non difettava di spirito d’iniziativa, tanto da omaggiare il Re di una fornitura di vermouth, rendendolo involontario testimonial della sua miscela.



Erano gli anni durante i quali il nuovo aperitivo avrebbe preso la via del mare alla conquista dei mercati, sostenuto da mercanti inglesi che facevano incetta dei più celebri vini fortificati europei – Madeira, Sherry e Marsala ne sono testimoni – per sopperire all’embargo su cognac e armagnac dettato dalla guerra con i francesi. Fu così che il nostro vermouth diventò comune nei locali francesi e spagnoli per poi raggiungere le Americhe, richiesto dalla grande comunità piemontese a caccia di fortuna oltre oceano, e le Indie. Un’espansione ottocentesca che coinvolse anche altri marchi che iniziarono a cimentarsi nella sua produzione, come Cinzano, Cocchi, Cora, Anselmo, ciascuno con una ricetta particolare e segreta.

Il vino rinforzato evolve, ma radica la sua essenza local

Si stava concretizzando il passaggio dalla fase di bottega a quella industriale, con il progressivo spostamento degli opifici produttivi fuori città, per favorire un più economico approvvigionamento del vino. Lo stesso nome cominciò a cambiare, in virtù di tante piccole variazioni – wermut, vermouth, vermutte o vèrmot – che però niente implicavano nella formulazione di base, cioè quella di un vino rinforzato con alcol e ravvivato da estratti di erbe aromatiche.

Ma comunque vogliate chiamarlo, poco importa. Nel bicchiere, magari uno di quelli in stile liberty con bordo in oro che ancora resistono nelle polverose credenze delle nonne, finirà sempre la stessa bevanda, pronipote di quella elaborata da Antonio Benedetto Carpano nel 1786 a sua volta discendente diretta del vinum absinthites dei romani e, forse, di preparazioni ancor più remote nel tempo, di cui non vi è né traccia né risposta nei libri di storia. Anche se, a ben guardare, la vera risposta che manca è sul perché le credenze polverose che custodiscono i bicchieri liberty siano sempre delle nonne e mai dei nonni.

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