Potete chiederlo a tutti i bartender che incontrerete sul suolo italiano, ma quasi sempre la pronuncia sarà all’americana. Sì perché “Roby Marton”, pronunciato con l’accento sulla “a”, suona così perfettamente “USA” che tutti lo credono a stelle e strisce. In realtà Roberto Marton, è veracemente trevigiano e – come da buona consuetudine veneta – l’accento lo vuole sull’ultima sillaba del cognome. L’equivoco però non gli è mai dispiaciuto e, anzi, se l’è sempre giocato con stile, lanciandosi – tra i primi in Italia – nel mondo del gin, con un’immagine di marca che molto deve a quel gusto un po’ Far West e rombi di motori di certi film anni ’80.
Dal gin al bitter e oltre
L’idea è stata fin da subito il gin. Nel 2013 Roby Marton parte con una piccola produzione affidandosi a una storica distilleria di Bassano del Grappa. Doppia distillazione, lenta infusione delle botaniche a freddo, l’immagine giusta e così inizia una storia destinata a evolversi rapidamente a partire da un momento in cui il mercato del gin, così come lo conosciamo oggi, era ancora in potenza. «Era un deserto», racconta in una precedente intervista a Spirito Autoctono, e in mezzo a quel deserto ha saputo costruire, assieme all’amico e socio Luca Grilletti, un’azienda tra le più conosciute in fatto di produzione – anche private label e non solo di gin – oltre alla distribuzione di altri brand, tanto esteri quanto italiani, senza disdegnare il lancio di progetti unici e innovativi. Tra questi c’è Saghè, un sake tutto italiano, il cui nome è un’esclamazione in dialetto veneto: “Cosa c’è?”, ma anche RaBitt, il “Radicchio-Bitter”, senza coloranti chimici, vegan e prodotto a partire dal radicchio. Sì, perché Marton produce anche radicchio. Più trevigiano di così.
Dieci anni alle spalle e il Sud America all’orizzonte
A chi gli chiede come ci si senta dopo il traguardo del decennio, Marton risponde «ho imparato a fare il gin dopo 10 anni». Il motivo è la Double Gold Medal vinta alla San Francisco World Spirits Competition solo due anni fa con il suo gin High Proof, 55,5 gradi di puro ginepro. Per vincere, dice «devi perdere come ho fatto io. Una medaglia di bronzo nel 2017… perché se perdi poi impari a vincere, per cui non bisogna mai abbattersi ma sempre rilanciare… Non sai se vinci, però devi comunque provarci di nuovo». E per un italiano un riconoscimento come quello significa certamente molto.
Tra le sue nuove fiamme – è proprio il caso di dirlo – c’è la tequila, che lo conquista per il carattere diretto e le infinite varietà della materia prima che, a volerci trovare un’analogia, ricordano un po’ quelle delle uve per il vino. Poi ci sono la cultura latinoamericana e un’anima fatta di maniche rimboccate, genuinità di approcci e semplicità, che rispetto agli spirits probabilmente va oltre. «Secondo me ci sarà proprio un’esplosione di Messico in tutti i settori», afferma ed è pronto a scommettere sul distillato di agave anche rispetto ai migliori whisky, tanto che ne sta già importando.
Per quanto riguarda l’Italia, vede grande fermento. «Nel campo degli amari adesso stanno nascendo delle piccole realtà con dei prodotti straordinari – rileva – sta cambiando tutto il panorama. C’è molto “regionale”, c’è un’esplosione della microdistilleria o comunque della microproduzione». E da questo trend trae una linea netta da seguire, che basata su un approccio più “naturale” al prodotto e senza coloranti di sintesi, dal quale secondo lui non si potrà più prescindere per entrare nelle bottigliere di alto livello.
Tutto questo, Roby Marton lo racconta nell’audio intervista a Spirito Autoctono
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