Intervista a tutto campo con l’ambasciatore mondialedel Consejo Regulador del Mezcal. Dai viaggi in messico alla passione per l’agave, passando per la mixology e gli esperimenti italiani
Arrivato a Roma dalla Sicilia nel 2008 per studiare musica, Cristian Bugiada – che ha fondato con Roberto Artusio la Punta Expendio de Agave di Roma – è uno dei sei ambasciatori mondiali ufficiali del Consejo Regulador del Mezcal.
Il bartender ha viaggiato per anni in lungo e largo per il Messico alla scoperta dei produttori di tequila e mezcal. E in occasione della sua serata al Flores Cócteles di Milano ha accettato l’invito di Spirito Autoctono per una lunga chiacchierata sull’universo degli spirits e, ovviamente, sui distillati di agave.
Cristian, cosa significa essere uno dei sei ambasciatori mondiali del mezcal?
«Siamo diventati ambasciatori per il CRM, che era l’unico organo in quel momento a certificare la Doc del mezcal e quindi la coerenza di tutti i parametri per essere considerato tale. Negli anni alcune cose sono cambiate, il Consorzio si è separato in due entità, ma a me è rimasta questa “carica” di ambasciatore del mezcal e continuo a far conoscere la “cultura liquida” messicana in giro per il mondo».
Come succede che un siciliano, poi trapiantato a Roma, diventi ambasciatore del mezcal? Per passione? Per affezione?
«Io nel 2013 ho iniziato ad aver questa curiosità per questo prodotto e l’ho condivisa con un altro bartender che per me era un idolo al tempo e che ora è anche un fratello: Roberto Artusio, fondatore del Jerry Thomas. Con lui abbiamo iniziato da colleghi a parlare del prodotto e a scambiarci informazioni, finché nel 2014 siamo partiti per il Messico per vedere come producevano questo spirito. Un viaggio che è diventato il nostro lavoro fino a oggi. Abbiamo scoperto molte cose interessanti.
Viaggiando in lungo e in largo per il Messico capisci che non ti basta solo un viaggio per scoprire il distillato messicano che oggi è distribuito su 10 regioni di produzione, per cui abbiamo fatto avanti e indietro per anni creando questo link e man mano che viaggiavamo incontravamo sempre più persone interessate al nostro progetto di divulgazione del distillato. In Italia facevamo le masterclass, quindi spiegavamo che cosa avevamo scoperto in Messico, mentre in Messico creavamo link commerciali, contatti per approfondimenti, piattaforme dove scambiare informazioni e prodotti. Poi è arrivato il 2018…».
Cosa è cambiato nel 2018?
«Dopo anni di evoluzione lenta, quell’anno abbiamo fatto alzare le antenne al Consorzio. Perché nel 2018, l’anno in cui siamo diventati ambasciatori, l’Italia è arrivata al quinto posto nella classifica dei Paesi acquirenti di mezcal. Un successo incredibile, se si pensa che in 4 anni l’Italia è passata dall’esser fuori dalla top10 al quinto posto».
E qual è oggi il trend del mezcal per l’Italia?
«C’è stato questo picco nel 2018, poi la domanda e il consumo si sono stabilizzati. Il covid non ha aiutato la distribuzione e la fruizione del prodotto che per arrivare qui deve fare 10mila chilometri; infatti oggi abbiamo ancora problemi legati ai costi di trasporto, che in alcuni casi sono raddoppiati. L’Italia, pur perdendo posizioni, è ancora tra i primi 10 acquirenti mondiali di mezcal. Ma ciò che è cambiato in positivo è che oggi in Italia è disponibile una gamma di prodotti di qualità, cosa che nel 2013 era impensabile. La gente sta cominciando a chiedere cose più particolari rispetto all’inizio, quando era un po’ spaventata da un nome – mezcal, appunto – che era difficile da collocare. Oggi invece il cliente viene al locale e ti chiede un prodotto specifico e particolare, perché lo conosce».
Come viene consumato? Principalmente in purezza o in miscelazione?
«Si consuma in entrambi i modi. In Messico lo preferiscono liscio, si parla di mezcal di altissima qualità e con la miscelazione non riesci a valorizzarlo al 100%, ha sapori così complessi che mettendolo in un drink li perdi. C’è poi invece tutta una gamma di prodotti studiati per la miscelazione che la gente richiede nei cocktail».
Voi come lavorate per far conoscere il mezcal?
«Dopo due anni che viaggiavamo abbiamo pensato di aprire la Punta Expendio de Agave – non vuol dire nient’altro che “negozio dell’agave” – che non è solo un bar né solo un negozio. Lo definirei una piattaforma: è principalmente un cocktail bar con cucina messicana, ma poi da qui nascono cose diverse. Stiamo mettendo in piedi un servizio di vendita online, facciamo consulenza per i brand che vogliono entrare nel mercato con iniziative, inoltre il mio socio è l’organizzatore del padiglione messicano del Roma Bar Show».
Qual è il ruolo della mixology?
«Ecco, qui da noi i cocktail li abbiamo sempre utilizzati come veicolo per far conoscere prodotti nuovi. Ad esempio, la gente conosce il Margarita: proporre un Margarita con il mezcal invece che con il tequila ci ha permesso di farlo conoscere a persone che prima non lo conoscevano. E quelle stesse persone magari poi si sono avvicinate chiedendo informazioni, hanno voluto assaggiare il mezcal in purezza, l’hanno apprezzato e oggi sono dei clienti che chiedono referenze molto particolari e importanti. Oggi al locale contiamo circa 800 referenze tra tequila, mezcal e distillati minori messicani – che sono sempre a base di agave, ma non possono essere chiamati mezcal perché si fanno in altre regioni del Messico dove non c’è la denominazione di origine».
Qualche esempio particolarmente interessante?
«Un esempio è il Bacanora, distillato di agave esattamente come il mezcal, ma prodotto in una regione chiamata Sonora che ha una sua denominazione. Anche lì noi siamo andati, abbiamo capito il processo di produzione, conosciuto i produttori e anche lì stiamo sviluppando piccoli progetti. E ovviamente portiamo il distillato alla Punta Expendio de Agave. Alla fine la parola mezcal vuol dire “agave cotto”, quindi tutti i distillati che vengono dall’agave si possono associare in qualche modo al mezcal».
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Negli Stati Uniti come in Europa il “what’s next” sembra esser la tequila, il mezcal si pone come una nicchia? E come riuscite a trasmettere la differenza?
«Abbiamo comunicato il mezcal fin da principio associandolo all’agave, che è anche il mondo tequila. C’è una ragione storica in tutto questo: il tequila originariamente si chiamava vino de mezcal de Tequila, quindi una bevanda alcolica dall’agave cotto dalla cittadina di Tequila, un paesino caratteristico nella regione di Jalisco. Quindi ai nostri clienti comunichiamo l’appartenenza territoriale e l’agave. E in fondo il mezcal è in qualche modo la madre di tutti questi distillati, anche se storicamente il tequila prende un’altra strada».
Ecco, seguiamo il filo di quel bivio Cristian…
«A un certo punto succede che, dopo la rivoluzione industriale, vengono inserite nella produzione di questo vino de mezcal de Tequila delle macchine a vapore che semplificarono alcuni processi di produzione. In particolare cambia la cottura, che è forse uno dei processi più caratteristici quando si parla di mezcal, perché avendo questi forni interrati acuisce la nota tostata un po’ affumicata che l’ha fatto riconoscere come distillato. Ecco, nella produzione di tequila i forni interrati vengono sostituiti con forni a vapore e il profilo organolettico cambia notevolmente, tanto da farlo diventare molto più fruibile, molto più smooth, morbido come direbbero gli americani. Non a caso il primo mercato del tequila oggi sono gli Stati Uniti, che importano più del 60% di produzione. L’anno scorso è stato il primo anno in cui i consumi di tequila negli States hanno superato whiskey e bourbon. E immagino una crescita esponenziale in prospettiva».
In Italia qual è lo scenario?
«Anche in Italia più o meno c’è lo stesso trend, facilitato anche dall’inserimento sul mercato di alcuni prodotti sponsorizzati da personaggi famosi. Però forse in Italia, avendo già lavorato sul territorio per formare i bartender e i consumatori con degustazioni e masterclass, c’è una richiesta più spinta di prodotti qualitativamente migliori».
Cristian, parliamo un po’ della formazione e di bartender. C’è una sensibilità specifica, un’attenzione da parte dei bartender e bar manager italiani?
«Assolutamente sì. Noi contiamo di aver formato ad oggi più di 4mila persone. Abbiamo fatto un sacco di corsi, di presentazioni di nuovi prodotti del mercato, siamo in costante contatto tramite i social con persone che ci chiedono informazioni, ci chiedono feedback. Ovvio che per riuscire a vendere bene il mezcal bisogna assimilarlo in maniera corretta. Il cliente ha bisogno di essere guidato. A differenza di altri distillati, se non viene spiegato e raccontato il mezcal è un prodotto che può disorientare per il bouquet di sapori così complesso. Spesso il consumatore è abituato a bere cose più flat. Adesso si sta cominciando a bere meglio, ma non dimentichiamo che negli anni Novanta a farla da padrone nel mercato italiano era la vodka che a livello di bouquet di sapori è (eufemisticamente) più limitata».
La mixology da questo punto di vista aiuta un po’ ad avvicinare, a riconoscere, a raccontare i toni del mezcal. Un twist sul Negroni, ad esempio, assume una personalità molto particolare. Può diventare un modo per scoprire l’unicità di alcuni prodotti?
«Assolutamente sì. Noi utilizziamo anche un altro bel parallelismo che è quello legato alla nostra bevanda nazionale: il vino. Il mezcal, venendo da diverse varietà di piante, è legato molto alla territorialità. Da qui derivano i vari profili organolettici. E questa cosa piace molto al consumatore italiano, secondo me, perché è abituato a sentire parlare di terroir nel vino».
Il rapporto tra il mezcal e gli spiriti italiani come lo vedi? Ci sono spiriti italiani, e quindi autoctoni, che funzionano bene in abbinamento al mezcal nella tua drink list?
«Quello che funziona meglio, secondo me, non è un distillato… è il vermouth, che lavora benissimo con il mezcal perché solitamente si hanno note amare, si hanno gli aromi del vino, si ha la nota erbacea che si lega perfettamente a quelle del mezcal. Ecco perché il Mezcal Negroni è un super drink. E noi abbiamo venduto per anni un drink a La Punta che si chiamava Mexnan, che era il Manhattan al mezcal; la gente lo adorava perché aveva questa base di vermouth classico, dolce alla vaniglia, con l’aggiunta di mezcal. Anche il liquore al rabarbaro secondo me lavora assolutamente meglio in miscelazione con il mezcal, perché ha una nota terrosa che richiama molto quello che è il sapore del mezcal».
La Sicilia è una terra di agave. Da siciliano, come vedi il distillato di agave made in Italy?
«È vero, l’agave c’è in Sicilia… ma viene comunque dal Messico originariamente. Come noi produciamo vino in Italia e la vite non viene dall’Italia, posso immaginare che nel futuro qualcuno potrebbe anche produrre mezcal in Italia. I messicani però si sono premuniti proteggendosi con una denominazione di origine protetta che include dieci regioni».
È chiaro che il mezcal è mezcal, punto. Ma come percepisci quelli esistenti o quelli possibili…
«C’è un prodotto in Italia che non è proprio un distillato di agave Agalìa , e non è paragonabile con il mezcal. Conosco i ragazzi e li stimo molto, il prodotto è interessante. Rimane il fatto che, se il mezcal ha 500 anni di storia, a noi serve ancora tempo per conoscere bene la materia prima. In realtà ci sono alcuni documentari dell’Istituto Luce – qui il link al video, ndr – che raccontano di un utilizzo dell’agave in Sicilia già dal 1938; è bellissimo perché sembra di stare in Messico, ma la pianta veniva lavorata per la produzione di tessuti e fibre, mentre un sottoprodotto era l’inulina (un correttore gastrico derivato dallo zucchero principale dell’agave). Dunque manca la tradizione. Certo, proprio amici messicani mi hanno detto: “c’è l’agave in Sicilia? Una volta vengo e proviamo a fare il mezcal, ci divertiamo”».
Quindi secondo te è difficile pensare a un mercato?
«Ci sono distillati di agave storici diversi dal mezcal. In Venezuela fanno il Cocuy de Penca, che ha la sua tradizione di distillazione, e qualche giovane emergente sta provando a distillare l’agave in Sudfarica, dove l’agave cresce meravigliosamente, ma anche in alcune zone dell’Australia stanno facendo distillati di agave. Eppure di tutto questo non si sente parlare perché il mercato del mezcal è già talmente piccolo che questi tentativi rimangono marginali».